SALVINI, UN PADRE DI TROPPO di Enza di Vita

“Dalla tua sedia a dondolo dominavi il mondo. La tua opinione era giusta, tutte le altre erano folli, esagerate, pazze, anormali. E la fiducia che avevi in te stesso era tale che non avevi neppure bisogno di essere coerente, senza per questo smettere di avere ragione. Poteva accadere che tu su un certo argomento non avessi alcuna opinione e quindi tutte le opinioni possibili in proposito dovevano essere sbagliate, senza eccezione. Potevi ad esempio insultare i cechi, poi i tedeschi, poi gli ebrei, e non a un certo riguardo, ma sotto ogni punto di vista, e infine rimaneva nessun altro a parte te.Tu eri avvolto nell'enigma di tutti i tiranni, il cui diritto è fondato sulla loro persona e non sul pensiero. Almeno così mi sembrava.” 

Chi parla è Franz Kafka e questo è un passaggio della sua celebre “Lettera al padre”. Scritta nel 1919 in risposta ad un documento inviatogli dal padre Hermann, verrà pubblicata postuma nel 1952. Uno scritto dal forte impatto emotivo capace di svelare i presupposti psicologici che fondano l'intera produzione letteraria kafkiana.

Ora, supponiamo per assurdo che lo scrittore boemo sia nato in Italia negli anni '80 e che sia figlio di una generazione superstite di padri tiranni. Uno che ha avuto pure la sfortuna di subire la prima metamorfosi esistenziale negli anni '90 del secolo scorso.

Per intenderci, in quel periodo storico e politico che obtorto collo può essere definito come il decennio dell'insicurezza.

Sono gli anni in cui un diffuso senso di insicurezza pervade gradualmente e (quasi) irreversibilmente la safety degli individui fino a monopolizzare il discorso pubblico.

Dal 1998 la frequenza d'uso del concetto di insicurezza negli episodi notiziati su scala nazionale raggiungerà proporzioni mai riscontrate sino ad allora fornendo al lettore, o spettatore televisivo, le “giuste” categorie concettuali e discorsive utili ad indicare il senso di disordine sociale percepito.

Paradigmatico è il mutamento semantico che subiscono termini quali “insicurezza” e “degrado” nella diatriba mediatica, come spiega Marcello Maneri in un suo saggio del 2001: a partire dalla fine degli anni '90, saranno sostanzialmente utilizzati per descrivere situazioni e luoghi in cui sono messi a rischio l'incolumità personale e i beni privati dell'individuo.

Si tratta di un momento cruciale in cui, oltre a verificarsi l'anzidetta variazione semantica, si opera a livello dell'immaginario collettivo una pericolosa associazione che vuole il tema della criminalità, e successivamente non solo questo, legato a quello dell'immigrazione.

A questo punto il giovane Franz o meglio, Francesco, fratello d'Italia, se non fosse già sufficientemente impegnato ad impanicarsi per la totale e desolante assenza di peli sul suo volto di adolescente si accorgerebbe che là fuori si sta mettendo in scena un panico di più ampia portata ovvero quello che Cohen definisce “panico morale”.

Nel frattempo, Francesco, diventa un uomo dall'indole nomade ed errabonda; è un contemporaneo cyberflâneur, ozioso affaccendato, figlio di un superstite padre tiranno (o superstite figlio del padre), particolarmente colpito dalle affermazioni del Ministro-padre degli Interni, Matteo Salvini.

Un politico-padre, un padre collettivo che è solito giustificare la propria azione politica sui social media assurgendola indirettamente al concetto della “diligenza del buon padre di famiglia”. Un mago della suggestione, singolare evocatore di una potente immagine archetipica capace di attivare un preciso pattern comportamentale.

Supponiamo ancora che la lettera di Kafka sia in realtà un post del blog personale di Francesco.

Il post, ad un certo punto, reciterebbe così: “il fatto è che per i figli i genitori provano soltanto l'amore animalesco che li confonde continuamente.. mentre l'educatore ha rispetto del bambino e, da un punto di vista educativo, questo è incomparabilmente di più anche se non dovesse concorrere l'amore”.

Parafrasando Francesco-Franz, potremmo dire che la figura del padre collettivo poco si addice alle funzione pubblica del ministro.

Una funzione che dovrebbe essere espressione, piuttosto che di un padre totalizzante, di un “intellettuale collettivo”.

L'amore animalesco del genitore non è di certo quella “connessione sentimentale” di cui parla Gramsci nei suoi Quaderni. Cioè quella che, tramite un lavoro di formazione “disinteressato”, favorisce lo sviluppo culturale, sociale e civile dei figli della Patria.

L'intellettuale collettivo è, ad esempio, quello che si evince dagli atti dell'Assemblea Costituente: ogni intervento, da quello dei leadears a quello dei backbenchers è manifestazione di uno spirito comune, direbbe il costituzionalista Massimo Villone.

L'intellettuale collettivo, perciò, non è uno e non fonda la sua autorevolezza sulla propria persona.

E' un processo che si muove mediante una massa critica organizzata.

E' altro dall'imprenditore (a)morale.

Non è espressione di un movimento di intellettuali radical chic a cui Galimberti, paradossalmente, additerebbe che: “è infinitamente più facile trattare le idee che trattare con gli uomini”.

L'intellettuale collettivo è anche egli Padre. Istanza che incarna la legge egualitaria, custode dei valori civili. E' un Padre che, per dirla alla Rank, sa dominare l'orizzonte.

E' colui che fornisce al figlio “quella preparazione di lunga mano che dà la prontezza di deliberare in qualsiasi momento”.

Allora, Francesco, dopo queste osservazioni, potrebbe scrivere un post al ministro-padre e decidere di concluderlo con la lapidaria: “aut liberi aut libri”.

Che per il caso in questione potrebbe suonare un po' come: dalla politica fuori le relazioni transferali e controtransferali disfunzionali con i figli.

Che a parlare restino solo i libri dai quali può rinascere l'intellettuale collettivo.

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