C'ERA UNA VOLTA... LA FAVOLA DELLA FAAC di Vincenzo Campo

Se avessi nipoti racconterei loro questa favola; diversi amici miei sono nonni e uno, Giovanni, ha la fortuna d’avere nipoti e figli piccoli; e so pure, da amici, anzi no: da uno dei suoi figli, che racconta loro raccontini e favole. Un po’ lo invidio.
Io la fortuna non ce l’ho e la favoletta la racconto a voi.
C’era una volta – tutte le favole cominciano con un “C’era una volta” – un piccolo imprenditore edile...
un imprenditore edile? Eh, sì: un piccolo imprenditore edile; una volta i protagonisti delle favole erano principi, principesse, re, draghi, streghe e cortigiane, ma oggi in tempo di repubbliche e di capitale e di finanza, i personaggi sono diversi... si adeguano ai tempi: che credibilità avrebbe una favola d’oggi che, in tempi di repubblica e di cavalieri pur senza paura e piuttosto privati del cavalierato a causa di macchia, favoleggiasse ancora di reami e di cavalieri senza macchia e senza paura?

Allora: sì un imprenditore edile, piccolo, però: c’era una volta, a Zola Pedrosa, che è un comune che fece parte per circa tre secoli dello Stato pontificio e che si trova nei pressi della dotta e grassa Bologna, c’era una volta, un piccolo imprenditore edile che si chiamava Giuseppe Manini.
Fabbricava le case e non poteva darsi pace del fatto che i condòmini, tutti i condòmini, nell’entrare e nell’uscire, lasciavano sempre aperti i cancelli che davano accesso ai cortili e ai parcheggi interni: nessuno scendeva dall’auto per richiudere il cancello. Nessuno. Manini non ci poteva sonno, si sarebbe detto dalle mie parti; non ci dormiva la notte, si dice dalle parti sue e dappertutto, in Italia.
Pensa che ti ripensa, in queste notti insonni, invece che assumere camomille, o forse anche a dispetto delle camomille, progettò il primo sistema di movimentazione automatica per cancelli, il mitico 750 interrato; di giorno, poi, lo realizzò.
Così il nostro Manini nel 1965 fondò una fabbrichetta, la FAAC – sigla che, con poca fantasia e senza voli pindarici, era ed è l’acronimo di Fabbrica Automatismi Apertura Cancelli; la cosa ebbe fortuna e così mentre i condòmini dormivano sonni tranquilli e i condomìni stavano protetti e riguardati dai loro cancelli chiusi, la fabbrichetta cresceva, cresceva, cresceva e s’ingrandiva.
Lui, il nostro Giuseppe, purtroppo, com’è destino di tutti gli umani, compresi i geni come lui, passò a miglior vita e lasciò la fabbrichetta, che intanto era diventata una vera grande fabbrica, all’unico figlio che aveva, o, per lo meno, all’unico figlio che risulta che avesse: Michelangelo.
Costui era un uomo schivo e solitario che non si sposò mai, neanche una volta, e non ebbe neppure figli; lavorava alla fabbrica che era stata di Giuseppe e col suo impegno contribuì a farla diventare una multinazionale, che nel 2011 aveva più di mille sudditi –pardon! – dipendenti e filiali in ben sedici Paesi stranieri: in Spagna, in Polonia e perfino in India e in Cina. Un piccolo impero, e lui ne era l’imperatore.
Ma era solo e doveva essere pure triste, ancorché benestante, e possiamo ben dire, pure ricco.
Per quanto noi che siamo uomini civili e moderni non crediamo alla sorte, ci vien da dire che Michelangelo non era neanche un uomo fortunato: ad un certo punto s’ammalò gravemente e la lunga malattia lo portò a morire che aveva appena cinquant’anni: soldi, ricchezza e potere davvero non sono tutto e non danno la felicità; almeno: la breve vita di Giuseppe Manini parrebbe confermarlo. La parente sua più prossima era una certa Mariangela, figlia d’un fratello del padre, e costei, pur addolorata per la perdita del cuginetto col quale, peraltro, non aveva buoni rapporti, pensava di potersi un poco consolare con la cospicua eredità del piccolo impero FAAC.
Ma ‘un fu accussì, l’amari a Dì – avrebbe detto mia nonna Olimpia: non andarono così, le cose, e diavulu fallu apposta, quel piccolo imperatore, geniale solitario e a sua volta figlio d’un genio, agli occhi della cugina e degli altri parenti suoi pure si dimostrò un gran figlio di buona donna, fece testamento e lasciò tutto alla Chiesa cattolica.
I parenti, Mariangela in testa, si sentirono spodestati, prima ancora d’essere stati investiti di quel potere, ognuno d’un pezzettino di quel piccolo grande impero che Manini padre e Manini figlio avevano costruito. Appreso della morte dell’Imperatore ognuno si sentiva già principe, conte, marchese o magari solo barone, quando invece, per volontà del Re, era destinato a rimanere quello che era. Intrapresero cause su cause, e si creò pure un quadro fosco e poco chiaro; successero cose che non si sarebbero credute possibili, come perfino intercessioni d’intermediari che la polizia e i giudici qualificarono come tentativi di ricatto, irruzioni notturne nello studio dell’avvocato dell’ereditiera Curia di Bologna con la dispersione, per terra, sul pavimento, delle carte contenute in un faldone intitolato alla FAAC.
Insomma non mancò nulla: colpi bassi, sgambetti e non mancò neppure il colpo di scena: Mariangela ad un certo punto dichiarò di non essere figlia di suo padre, ma del fratello di lui, del buon Giuseppe; sì, insomma, che suo padre era stato cornificato dal fratello e che sua madre, seppure non leggera, almeno una volta aveva ceduto al cognato; che dunque Michelangelo era suo fratello, il quale per questo, proprio perché sapeva della scappatella del suo papà, la Mariangela non l’aveva per niente in simpatia.
Insomma, se fosse stato accertato che era così, che lei era figlia di Giuseppe e sorella di Michelangelo, sarebbe stato pure accertato ufficialmente che la sua mamma non era stata esattamente una santa – del resto tutto ha un prezzo e un prezzo ha pure l’onorabilità delle mamme – ma per lo meno lei sarebbe diventata l’erede del cugino-fratello. Chiese, allora, la riesumazione dei corpi di Giuseppe e di suo fratello, cioè di suo padre e di suo zio, perché si esaminasse il DNA e s’accertasse che lei e era sorella di Michelangelo e non cugina, come invece risultava.
Tutte le parti della causa contrastarono la richiesta e non se ne fece niente; anche perché la Chiesa pensò bene di tacitare le pretese di tutti quelli che protestavano d’essere stati ingiustamente esclusi dall’eredità con generose elargizioni di denari.
Jemu e jemu, letteralmente “andiamo e andiamo”, e cioè “e allora successe che”, successe che l’Arcivescovo di Bologna prese possesso della multinazionale e stabilì delle linee-guida ben precise per la sua gestione: accordò ad ogni dipendente il diritto ad una polizza sanitaria aggiuntiva e gratuita, e un campo estivo per i suoi figli; stabilì che il 4-5% del fatturato, che è più o meno il doppio della media del settore, venisse reinvestito in ricerca e sviluppo.
I dipendenti aumentano e diventano 2.500.
Il fatturato crebbe e aumentarono gli utili che a loro volta vennero interamente destinati al territorio tramite la Caritas che cominciò a spenderli in affitti, utenze e sanità in aiuto alle famiglie bisognose; in sostegno ai ragazzi disabili (dal logopedista, all’acquisto di presidi, a corsi di nuoto); prese a finanziare enti che organizzavano doposcuola e progetti contro la dispersione scolastica; si realizzarono «progetti lavoro» concordati con il Comune; si finanziarono borse di studio, progetti sociali. In tre anni furono aiutate 1.500 persone e finanziati 15 enti.
Venne pure istituita una commissione con il compito di valutare ed eventualmente finanziare i progetti più disparati, dalla sala da tè gestita da disabili, ad un progetto di importazione ed esportazione dal Senegal, al dormitorio per i senza fissa dimora alla Bolognina... insomma, una commissione che valutasse ed eventualmente finanziasse le richieste che man mano arrivavano dai parroci, che a loro volta, poi, avrebbero dato conto di ogni euro speso.
Risultato dell’operazione? La FAAC non ha debiti, è attenta ai bisogni e al benessere dei suoi dipendenti, fa profitti e in buona misura li spende in aiuti vari.
Morale della favola da spiegare ai nipotini che non ho: si può fare impresa con criteri diversi da quelli che conosciamo, l’impresa può pure crescere e realizzare profitti pur avendo l’occhio anche ai bisogni dei lavoratori; e così mentre, il mondo che conosciamo estende al settore pubblico, paradossalmente anche a quello dei servizi come sanità, solidarietà ed istruzione, i criteri della redditività, della produttività, del profitto propri dell’impresa, la Chiesa di Bologna ci dimostra che è possibile applicare criteri solidaristici anche al bastione-tipo del capitalismo, che è proprio l’impresa.

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