UN AMORE DA MORIRE di Pepi Burgio

Anche la pressione entusiasta sollecitata dalla lettura di un libro testimonia di affetto e di amicizia. E quindi, grato, ringrazio T.S. per avermi regalato Vedi alla voce: amore di David Grossman. Romanzo di particolare complessità e di improbabile fruizione senza una guida che raccomandi l’esercizio della pazienza e l’apertura verso extra-ordinarie, stupefacenti risorse linguistiche. La quarta di copertina si chiede come raccontare alle giovani generazioni l’Olocausto. Secondo alcuni esso è inenarrabile, in quanto situato in una zona che trascende l’orrore. La sua unicità non consisterebbe soltanto

nel porsi come evento mostruoso, forse irripetibile della storia umana, come suggerisce Norberto Bobbio; ma in qualcos’altro.

Primo Levi ne I sommersi e i salvati, opera, a giudizio di Maurizio Iacono, dai molteplici spunti filosofici, propone una citazione di Alessandro Manzoni che individua nel pervertimento la principale conseguenza psicologica della mutuazione della vittima dal carnefice: i provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi.

Ma Primo Levi non sembra disposto ad andare oltre. E quindi respinge decisamente come vezzo estetistico ogni identificazione o imitazione o scambio tra il persecutore e il perseguitato; ma molto attento, tuttavia, nel cogliere nella tensione estrema dei lager, un moltiplicatore dell’ambiguità e del compromesso che connota la cosiddetta zona grigia”. A Liliana Cavani che sul “complesso di Stoccolma”, declinato in relazione ai campi di sterminio nazisti, ha realizzato un film, “Portiere di notte”, bello e falso secondo Levi, l’autore di Se questo è un uomo ricorda che soltanto una malattia morale o un sinistro segnale di complicità può minare l’ontologia forte, la tragica graniticità, l’identità del ruolo dei carnefici e delle vittime: non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, e questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no. E quindi, ribadita con forza la ragione non scalfibile dell’igiene identitaria, ne discende la comunicabilità dello sterminio.

In una direzione diversa sembra inoltrarsi il romanzo di Grossman. Di esso, forse, vanno messi in luce almeno due momenti; entrambi coerenti con la inaccettabilità, per la coscienza, di accogliere punti di vista per così dire fluidi, rispetto alla rigidità, alla sostanzialità dell’approdo del vissuto di Primo Levi. Il primo: quando a Neigel (l’ufficiale nazista comandante del campo di sterminio), Wasserman (lo scrittore ebreo internato a cui Neigel ha già ucciso la moglie e la figlia) rivolge nascostamente un pensiero scandaloso e sconvolgente: Io osservai quel rottame. Non celerò cosa alcuna. Imperocché non lo odiavo. Fino dall’attimo stesso in cui aveva sparato alla mia Tirzele davanti ai miei occhi, l’odio era morto in me. Si erano fatti ottusi in me la ripugnanza, i terrori, la collera, e anche l’amore, pareva, si era molto offuscato. Erano restate solo le parole erano restate, parole svuotate, fatte a pezzi, e nelle loro rovine nidificato avevo io quale un ultimo uccello superstite di un grande disastro.

Cos’è allora questa mutazione dell’odio che pare si sublimi in amore? L’impossibilità di resistere alla sua sconvolgente persistenza temporale; una forma estrema e inconsapevole di vendetta? Un paradossale attaccamento nei confronti del carnefice che a un certo punto pone fine, attraverso la morte, grande consolatrice, all’insopportabile terrore della vittima? O cos’altro ancora?

Solo Sade e Dostoevskij, per la Cavani, hanno compreso tali dinamiche. E qualche altro ancora, diciamo noi, Freud e Kafka per esempio, che sull’argomento hanno proposto acquisizioni tanto importanti quanto terribili. Mi chiedo: può darsi autentica comunicazione se la modernità, secondo Todorov tra le sue mirabilie, ha recato anche il contrassegno del massacro senza scopo? Può la morte dell’odio non investire la natura del pensiero e del linguaggio? Quanta verità, diceva quel tale, può sopportare un uomo?

E infine, il secondo momento che è opportuno mettere in luce, allorquando Wasserman, sempre rivolto a Neigel, dice: l’illusione ci avete tolto... l’illusione che esista un inferno... anche per questo è necessaria un’illusione, e un pizzico di non-conoscenza e di segreto, di mistero... ché solo così può la speranza mantenersi in vita, quella misera speranziella che forse dopo tutto le cose non sono poi così brutte... e sempre ci figuravamo l’Inferno, lo sa? con lava bollente in grandi caldaie, ma poi siete venuti voi, con permesso parlando, e ci avete fatto vedere quanto povera era la nostra immaginazione...

Ha scritto Paul Celan: Il pensiero / ambula mascherato e origlia: / poiché nulla / si presenta in figura propria

Sembra proprio così.

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