LEGGERE IL NULLA di Pepi Burgio

A parere di Roberto Deidier, autore della bella introduzione a La penombra mentale – Interviste e conversazioni 1965 – 1990, Giorgio Manganelli è “l’artefice di una impalcatura retorica che sorregge la rappresentazione del Nulla”; e la sostanza che la costituisce, “la materia linguistica”, non rimanda che a se stessa: la sua intima natura è autoreferenziale, non connota alcunché, non significa. Allude semmai, fa segni. Rivela, diremmo oggi, un nuovo ordine di senso, ma esso è enigmatico, misterioso. Estraneo ad ogni recinto sistematico, il suo essere è labirintico, le traiettorie che descrive sono tortuose, imprevedibili, come il volo delle rondini. Donde, dice ancora Deidier, lo scrivere oscuro di diversi testi di Manganelli. Oscuro quasi come quell’efesino di molti secoli fa.

Ma se la scrittura di Manganelli discende da riconoscimento dell’assenza di un senso codificato, una riflessione di Elias Canetti sulla lettura sembra pervenire ad un esito simile, in un certo senso, mediante, però, una puntuale cura dell’intelligenza delle trasformazioni sociali degli ultimi decenni.

Quasi trent’anni fa, nel 1993, Canetti coglieva nell’incapacità di trasmutazione della lettura in sudore e sangue da riversare nella storia, lo stigma di un rivolgimento epocale che assegna all’uomo il destino di abitare i sentimenti senza che da essi si originino conseguenze di sorta.

Sta arrivando un’età, forse l’ultima, in cui la lettura non significa più nulla. Non si collega più all’esistente, scivola via, non sedimenta più, non lascia tracce. Forse risveglia ancora desideri di altre cose che andrebbero lette, ma sono desideri vaghi che svaniscono prima di potersi articolare. Come giudicare questo tipo di lettura, così diverso da tutto quello che prima chiamavamo leggere?

Forse è una sorta di esercizio all’oblio delle parole, il loro palpito prima del silenzio.

E pertanto la lettura, resa residuale e di fatto abolita nelle sue finalità umanistiche, da lievito per i registri logici e la flessibilità del pensiero, rischia davvero di diventare, qualora già non lo sia, strumento di una scadente omologazione che alla velocità della luce consuma le proprie determinazioni. Che avesse ragione quel tale, quando diceva che “ormai solo un dio ci può salvare”? Chissà.

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