DISPERDERSI NEI BOSCHI PER TROVARSI di Pepi Burgio

Bernard Berenson diceva che ogni vera opera d’arte emana simboli e analogie; e quindi, a chi apprezza l’eleganza delle metafore eleganti e ne coglie la natura inventiva oltre che strumentale,  credo che nulla dovrebbe risultare più attraente della lettura del Saggio sul cercatore di funghi di Peter Handke. Saggio da intendere più che altro in riferimento alla saggezza che ad una rigorosa modalità di costruzione del discorso.

         Il cercatore di funghi narrato da Handke è un avvocato di grido, senza tuttavia un particolare trasporto per la professione; mentre invece non sa e non vuole sottrarsi alla potente suggestione della ricerca e della scoperta di qualcosa non oggetto di alcuna utilità e quindi di alcun commercio. Il cercatore di funghi, il fanatico, dice Handke alludendo probabilmente all’accezione etimologica del termine, sceglie il sentiero più bello, non il più facile, ma anzi il più avventuroso, quantunque, o proprio per questo, più scarso di ritrovamenti. Ricordate quei versi di Robert Frost? Due strade trovai/ nel bosco ed io scelsi/ quella meno/ battuta. Ed è per/ questo che/ sono diverso. E si inoltrerà per i boschi senza compagnia alcuna, men che meno in gruppo, rigorosamente da solo o al massimo accompagnandosi a un bambino. Al contrario, non cercheranno i funghi, ma si limiteranno a raccoglierli copiosamente in qualche rara occasione, gli abitanti delle montagne più alte, talmente prossimi ai boschi da esser divenuti essi stessi bosco.

Diranno infatti: da noi non si cerca, semplicemente si raccoglie!. Al bosco può approssimarsi chi gira le spalle a ciò che bosco non è, alla società, ai suoi miti e ai suoi riti, appressandosi, direbbe Junger, al meridiano zero; laddove, avvertita ogni disarmonia innanzi al mondo, piantata la professione, la moglie e la famiglia, il cercatore di funghi si immerge, agito da frenesia compulsiva,  in un mare tenebroso entro cui smarrisce a tratti la percezione dello spazio e del tempo, involgendosi ora nel panico ora nell’estasi. Peter Handke distilla l’intera narrazione con una sottile trama ironica: impossibile non pensare a Poe e a Kafka. E come quest’ultimo, stende sull’intera vicenda una coltre pietosa di sincera partecipazione emotiva, e sparge qua e là con frugale sapienza, alcune punte di intensa cifra poetica:  fin da piccolo aveva avuto un occhio particolarmente attento alla forma contraddittoria, diversa, estranea, e allo stesso modo ciò che lì per lì catturava la sua attenzione era il colore più carico, insolito, differente, la sfumatura fuori posto, la geometria contrastante in mezzo al caos uniforme, l’esemplare del piumaggio candido, o splendidamente pezzato, il disegno di una trama in una tinta unita.

         Il cercatore di funghi dallo sguardo distorto (così appariva ad un suo insegnante, poiché c’era qualcosa in lui che lo rendeva abile a scovare o a rendere visibile qualsiasi fenomeno che uscisse dal coro) il cercatore di funghi, dicevamo, reclama l’utilità dell’inutile: ecco perché ci turba e insieme ci affascina.

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