"TUTTI VIVIAMO DI STELLE SPENTE" di Pepi Burgio

Fosse stata ancora in vita, Cristina Campo avrebbe in questi giorni provato grande amarezza e assaporato, per una volta ancora, l’acre della sconfitta. Lei, che aveva riconosciuto nel sentire cattolico il luogo d’elezione che esalta la bellezza attraverso la liturgia.

         Papa Bergoglio, motu proprio, ha da poco abrogato il Summorum pontificum di Benedetto XVI, con cui tredici anni fa si autorizzava la messa in latino, secondo il rito anteriore al Concilio Ecumenico Vaticano II, risalente nientemeno che al secolo XVI, durante il pontificato di Pio V. Il provvedimento, ad alcuni, assai pochi in realtà, è apparso intempestivo e imprudente, o poco delicato nei confronti del Papa emerito tuttora vivente. Ma di ben altro si tratta, più che di una speciosa questione di bon ton.

         Cristina Campo, per chi non la conoscesse, è stata una poetessa  e scrittrice morta nel 1977, traduttrice tra gli altri di John Donne, Virginia Woolf,  Emily Dickinson. Nel 1966, in opposizione alle riforme conciliari, promosse una raccolta di firme a sostegno di una lettera-manifesto da inviare al Pontefice perché venisse mantenuta nei conventi la messa in latino e il canto gregoriano. Ad apporre la firma in calce al documento saranno trentasette fra artisti ed intellettuali, chiamati a raccolta dalla poetessa con fervore anacronistico ed eccentrico. Fra questi, Jorge Luis Borges, Robert Bresson, Elena Croce, Giorgio De Chirico, Augusto Del Noce, Carl Theodor Dreyer, Grabiel Marcel, Jacques Maritain, Francois Mauriac, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo e Elémire Zolla.

         Ostile alla modernità ed estranea ai riti ed ai miti della coeva egemonia culturale, Cristina Campo concepiva l’impegno in difesa della liturgia preconciliare come opposizione alla prosaicità della società di massa, e  insieme come affermazione del carattere veritativo a cui, secondo il suo sentire, la piegatura estetica della liturgia destina. Superfluo il ricordarlo: l’incanto musicale suscitato dal canto gregoriano, compone in buona parte il sentimento mistico della liturgia, per san Tommaso “riflesso della bellezza che è verità”. Qualcosa di simile ha detto di recente Riccardo Muti: “la musica è rapimento, non comprensione”. E connesso al turbamento indotto dalla musica, sta il compiersi del rito, ovvero la mise-en-scène, la drammatizzazione simbolica scandita da gesti e parole replicate fino all’affrancamento dal rigore plumbeo dei concetti. Ma il valore autentico dell’opera e delle riflessioni proposte da Cristina Campo, non sta ancora in quanto detto fin qui, ma piuttosto nella centralità, per la sua poetica, del concetto di sprezzatura. Lo ha colto con acutezza Cristina De Stefano, una giornalista e scrittrice di valore, autrice quasi vent’anni fa di una bellissima biografia della poetessa. Scrive la De Stefano: “Maestro supremo di sprezzatura è il Cristo - spiega Cristina Campo in un suo saggio - con le sue ineffabili soluzioni che capovolgono l’ordine del mondo”. (“Se uno vuol prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello”).

         La Campo, secondo Cristina De Stefano, “ricerca la sprezzatura perché sa che è il blasone di qualsiasi persona che abbia al centro dei suoi pensieri la bellezza, questa spada a doppio taglio che l’attrae e l’ossessiona”.

         La bellezza verso cui inclina la Campo risiede, allo stesso modo, nella gloria della resurrezione e nel supplizio della croce. La bellezza che rende naturale perfino la morte, “come l’ombra intorno a un frutto”, ribalta la maniera ordinaria di servirsi delle categorie estetiche: forse questo è il vero senso della sprezzatura.

 

Nell’agosto del 1956, a Marcinelle, in Belgio, un’esplosione in miniera provoca la morte tremenda di duecentosessantadue persone, molte delle quali italiane. L’emozione è grandissima, la televisione sorta da poco trasmette le immagini del pietoso recupero dei corpi straziati tra una folla silente di donne in gramaglie. E’ il Golgota. Riferisce la De Stefano che per diversi giorni la scrittrice è tormentata dal ricordo di quelle visioni. Infine dirà così: “Da sette giorni nient’altro mi sembra vero… soltanto i minatori di Marcinelle possono, scomparendo, inondarci di bellezza pura. Tutto di noi deve opporsi, a prezzo della vita stessa, alla possibilità di un fatto come la loro morte. Ma solo un fatto come la loro morte può darci la bellezza assoluta dell’uomo”.

         Ecco, questa è sprezzatura, e questa è la Campo, l’aristocratica che amava i deboli e gli sconfitti, i gatti e i barboni; la reazionaria generosa che impegnava i suoi risparmi nel soccorso di una profuga jugoslava. E detestava la mediocrità, il consumismo e la massificazione; e soprattutto la rinuncia al perseguimento della perfezione in nome della più confortevole e rassicurante perfettibilità, cosciente tuttavia “che tutti viviamo però di stelle spente”.

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