PEPI BURGIO ALL'AUSER. APPUNTI SU UNA LEZIONE INATTUALE di Giacomo La Russa

Recentemente, nella sala Fazello del Museo Archeologico di Agrigento, nell'ambito delle attività dell'AUSER Pepi Burgio ha intrattenuto un attento pubblico sul tema dell'eclissi della tradizione. Burgio ha esordito confessando di non avere certezze, di non avere neanche un’idea precisa. Vorrebbe solo fare riflettere, offrire qualche elemento, qualche strumento di comprensione.

Timido, sobrio, limpido, cita, anzitutto, Il pensiero storico, la rivista nata nel 2016 per incoraggiare lo studio e la ricerca delle idee, delle ragioni che hanno prodotto i fenomeni storici. Giacché, come ricordava Aristotele, «la causa della difficoltà della ricerca della verità non sta nelle cose ma in noi». Come gli occhi delle nottole di fronte alla luce del giorno, così la nostra intelligenza si comporta nei confronti delle cose più evidenti. Non vogliamo vederle. Ci rifiutiamo di riconoscerle. Al contrario di Bartleby, imprigionati nella caverna di Platone, diciamo di sì alle immagini che ci scorrono davanti senza nemmeno pensarci.

Elegante, pacato nel suo completo blu, il professore, citando lo studioso Luigi Iannone, ha indicato le due principali cause che hanno determinato l’eclissi della tradizione: 1) la globalizzazione che comporta l’impoverimento delle culture particolari o la loro riduzione a spettacolo folcloristico a uso e consumo dei turisti; 2) l'accelerazione tecnologica e il conseguente predominio dell'istante (il trionfo, insomma, dell’immediato, che non permette alcuna idea di tradizione, di permanenza). Né può mancare, subito dopo, il riferimento a La condizione postmoderna, l’opera che Jean-François Lyotard pubblicò nel 1979. Il professore l’ha con sé, la mostra all’uditorio come pietra miliare, scoglio quasi al quale potersi in qualche modo aggrappare. Eppure, è proprio Jean-François Lyotard che definisce la nostra condizione (quella postmoderna, appunto) come l’incredulità e, dunque, l’abbandono delle meta-narrazioni: quella illuministica che trova in Cartesio la sua base e si illude che tutto possa essere spiegato, decifrato (vibra, a un certo punto, la voce del professore che, dopo avere ricordato i meriti dell’Età dei Lumi, sottolinea la sua ingenuità nel ritenere che tutto quello che era avvenuto prima fosse preistoria, fanatismo, violenza, ignoranza, superstizione. No, dice Burgio, il Medioevo è Dante, Giotto, San Tommaso, sono i duecento monasteri benedettini, è la teoria della giustificazione della ribellione al sovrano che si è fatto tiranno, la Magna Carta, san Francesco d’Assisi, la civiltà comunale); quella idealista e marxista per cui il negativo, il dolore, la sofferenza appaiono necessari perché lo spirito possa finalmente prendere coscienza (Hegel) o il proletariato possa emanciparsi e realizzare il suo destino vittorioso (Marx); quella ancora secondo la quale abbiamo, in ogni caso, bisogno di certezze, di credere in qualcosa di sistematico, di onnicomprensivo (che la scienza si incaricherà essa stessa di smentire). Eppure, prosegue il professore, tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, i segni di questo sgretolamento, di questa dispersione della tradizione occidentale sono presenti in ogni dove, in ogni campo: da Diotima, il personaggio del capolavoro di Robert Musil, che pur non potendo figurarsi una vita senza verità eterne, si accorge di come ogni verità sia doppia o tripla, a Eugenio Montale che, ne I limoni (1921), canta come «l’illusione manca» e, invano, ci si aspetta di scoprire «il filo da disbrogliare che ci metta nel mezzo di una verità»; da Arthur Rimbaud che dice «Je est un autre» (Io è un altro) a Sigmund Freud secondo cui la coscienza è la parte più piccola e meno significativa della personalità; dallo «strappo nel cielo di carta» de Il fu Mattia Pascal al frammento 125 de La gaia scienza in cui l'uomo folle corre al mercato per gridare: «Dio è morto!». Il Novecento, insomma, ci ricorda, compreso, Pepi Burgio, è il secolo delle due guerre mondiali, del nazismo e del comunismo, del nazionalismo aggressivo e dell’imperialismo e della bomba atomica, di Auschwitz e dell’Arcipelago Gulag. Egli sembra così chiedersi, insieme a Theodor W. Adorno, se, dopo tutto questo, sia ancora possibile la poesia, dipingere, comporre musica, scrivere romanzi. Del resto, come diceva Hans Jonas, se Dio ha permesso tutto questo, o non è infinitamente potente o non è infinitamente buono. Ed è, a questo punto, proprio sul finire della sua relazione, che il professore ritorna sullo sviluppo scientifico e tecnologico, sul capovolgimento determinatosi tra soggetto e oggetto, per cui è ormai la tecnologia a usare e tiranneggiare l’essere umano. D’altro canto, nel 1955, Martin Heidegger tiene una conferenza nel borgo dei suoi natali, nella quale rimarca l'oblio definitivo del pensiero riflettente in nome del primato assoluto del pensiero calcolante; e la conseguente indisponibilità a pensare le radicali trasformazioni del tempo presente che la scienza sociale definisce come shock antropologico. Sicché, al momento di concludere, sembra quasi che il professore si sia voluto nascondere, abbia voluto affidare il suo pensiero a Benedetto Croce che, tra il 1946 e il 1952, meditando sui drammi del secolo, aveva scritto una serie brevi di saggi (La fine della civiltà, L’Anticristo che è in noi, Il peccato originale e La vita, la morte e il dovere) per opporsi al nichilismo e individuare il vero Anticristo in noi, nella negazione dei valori, nell’impoverimento spirituale e nell’inselvatichimento della nostra condizione esistenziale.

Nel suo ultimo romanzo, Cormac McCarthy, aggiunge infine Pepi Burgio, nel prendere congedo da un mondo in cui la letteratura contava ancora qualcosa, fa dire a uno dei suoi personaggi: «Ti conosco. Conosco certi tuoi giorni d’infanzia. La solitudine quasi da piangere. La scoperta di un certo libro in biblioteca. Stringerlo al petto. Portarselo a casa. Un posto perfetto per leggerlo. Magari sotto un albero. Accanto a un ruscello… Ma in realtà la domanda è: siamo gli ultimi del nostro lignaggio? Albergherà, nei bambini futuri, una nostalgia di qualcosa che non sapranno nemmeno nominare?». «Io credo di no», conclude forse emozionato il professore, «ma spero proprio di sì».

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