'LA STRADA' DI FELLINI UN CAPOLAVORO NEGATO, FUORISCHEMA di Pepi Burgio

“Il film di cui ci illudevamo di essere solo spettatori è la storia della nostra vita”. I. Calvino, 1974

Diffido in genere della parola “storia”, ancor di più se “della nostra vita”. Ma Calvino, a parte il resto, nel ’54 quando La strada cominciò ad essere proiettato in lungo e in largo, aveva l’età giusta per confermarsi in una identità sentimentale fatta di affetto per gli uomini travolti da un destino che offende.

            La strada, al pari de I 400 colpi di Truffaut o La ballata di Stroszek di Herzog, riempie il sentire di un’accesa commozione e spinge al racconto rivolto a chi è curioso di ascoltarti, a chi ti vuol bene. La strada, come una certa lettura o un certo brano musicale, può procurare un’affinità spirituale destinata a durare per sempre. Mi è difficile pensare ad un’amicizia che non contempli una comune sensibilità verso particolari procedure espressive. La strada, con le sue imperfezioni sintattiche, le inesperienze che pure è possibile cogliere nella sceneggiatura e nel montaggio, è uno di quei film destinati a costituire aspetti strutturali dell’educazione sentimentale di alcuni. Distaccare, come in un tavolo anatomico, le singolarità linguistiche dell’opera, o piegare all’impeto ideologico il film, mostrandone l’inutilizzabilità ai fini del procedere verso il sol dell’avvenire, comporta confinarsi dentro categorie interpretative aprioristiche e rigide, ma soprattutto non avvertirne la straordinaria vitalità poetica.

            Tullio Kezich, autore di una bella ed esaustiva biografia di Fellini, ricorda la diversa accoglienza che il film ricevette in Italia, dove fu in genere strapazzato perché giudicato incoerente con i canoni estetici del neorealismo, e all’estero, specie in Francia e negli Stati Uniti, dove il film venne salutato come l’ennesima realizzazione del genio italiano. Kezich rammenta inoltre che nel nostro paese La strada fu battezzato come “vecchio, falso, insincero, letterario, irreale, patologico, velleitario, bamboleggiante”; invece in Francia, la diffusa sensibilità surrealista fra gli artisti e gli uomini di cultura, nonché il possesso di un più ampio e articolato ventaglio ermeneutico, furono in grado di apprezzare la nuance favolistica del film.

Nello scenario culturale del cinema italiano di quegli anni, la proposizione di una lieve folata spiritualista fu ricusata, contrapponendole gli aggettivi di cui sopra.

            Ha scritto Kezich: “Di fatto è la sinistra che si nega la visione dell’Italia ‘altra’, emarginata e sottoproletaria, rivelando una sbalorditiva ignoranza di quella cultura antropologica che, sulla falsa riga di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, sta nascendo attraverso le inchieste nel Sud di Ernesto De Martino”. Basterà a giustificare simili atteggiamenti di chiusura feroce nei confronti del film, il clima di aspra contrapposizione fra gli schieramenti politici e culturali degli anni della guerra fredda? Forse no. “Mentre a Parigi l’entusiasmo cresce, da noi si ironizza sul ritardo culturale della Francia”, sarà l’amaro commento di Kezich. Chi invece, alla vigilia della pubblicazione di Ragazzi di vita, vedrà ne La strada un capolavoro, è Pier Paolo Pasolini, il futuro regista che con Mamma Roma e Accattone iscriverà, con un registro poetico molto diverso da La strada, il sottomondo polveroso dei borgatari romani, all’interno di un ethos sacro, o come dice Pasolini stesso nel corso di un’intervista rivelatrice del 1964, “epico-religioso”. “La mia visione del mondo è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso; quindi anche e sopratutto in personaggi miserabili, personaggi che sono al di fuori di una coscienza storica, e nella fattispecie, di una coscienza borghese, questi elementi epico-religiosi giocano un ruolo molto importante. La miseria è sempre stata per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in un certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali”.

            La strada, che la travolgente fantasia di Fellini fa scorrere su modi narrativi lirici, simbolici, precorre la tensione drammatica pasoliniana verso i “puri”, e accenna un’apertura in prossimità delle misteriose regioni dell’inconscio, leitmotiv della sua filmografia.

“Le radici da cui sono nati Gelsomina, Zampanò e la loro storia pescano in una zona profonda e oscura, costellata di sensi di colpa, timori, struggenti nostalgie, per una moralità più compiuta, rimpianto per una innocenza tradita”. Gelsomina e Zampanò sono certamente, scrive Gian Piero Brunetta, “esseri che paiono il frutto di un lavoro di scavo dentro l’inconscio”; ma anche il rispecchiamento, in parte distorto dalla fantasia, dello strambo, del matto, del marginale, figure appartenenti ad un milieu psicologico, estetico, oltre che fattuale.

            L’inclinazione verso il mondo dei vagabondi, dei clochard, dei clown, l’interesse alle loro vicende, maneggiate con la grazia che solo un poeta delle immagini sa conferirle, è un importante mattone del grande edificio di quella educazione sentimentale cui all’inizio mi riferivo. Ha detto Fellini in un’intervista: “Davanti a un innocente mi arrendo subito e mi giudico pesantemente. I bambini, gli animali, gli sguardi con cui ti fissano certi cani, l’eterna modestia che certe volte ravviso nei desideri di gente umile, hanno il potere di turbarmi”.

            Nel 1969, Pio Baldelli, brillante critico cinematografico, docente di Storia del cinema a Firenze, pubblica il primo volume di un corposo saggio, Cinema dell’ambiguità, piuttosto severo nello stigmatizzare il neorealismo e il cinema di Fellini, a cui fra l’altro rimprovera una “dilatazione visionaria del documento e la nostalgia della madre chiesa”. Baldelli, espressione organica dell’area politica e culturale della cosiddetta “nuova sinistra”, ha sviluppato il suo ragionare avvalendosi di una scrittura efficace ed un impegno attento sul piano filologico, nulla di paragonabile alla rozzezza  che accolse e accompagnò La strada fin dalla sua uscita. Ma nonostante risulti evidente un certo spessore interpretativo, neanche lui si è sottratto a una spericolata inversione nell’approccio critico, finendo cioè per considerare debole ciò che invece costituisce la forza, il fascino della poetica felliniana. Esempio: “Il tema del film consiste nel tentativo di dimostrare che la ‘vera spiritualità’ si esprime su di un piano di istintivo sentire in personaggi candidi, iperbolici, primitivi, ai margini dell’organismo sociale”. E aggiunge: “Fellini ha scarsi collegamenti con il prossimo perché tende a parlar soltanto di sé stesso, gli altri nella loro presenza autentica e nelle ragioni storiche non esistono. Gli avvenimenti storico-politici belli o brutti che siano, gli passano accanto senza toccarlo: una forma di individualismo anarchico che giunge ad un infantile sadismo e ad improvvise aperture liriche”. Che dire?

            La maledizione del film e del regista da parte dei critici italiani, pronunciata nel 1954 col giudizio perentorio di Guido Aristarco che su Cinema nuovo ha definito il regista anacronistico, “invischiato com’è in problemi e dimensioni umane largamente superate”, è proseguita ancora per diversi anni. Nel 1974 la prestigiosa editrice La Nuova Italia, pubblicò nella collana Il Castoro cinema una monografia di Franco Pecori su Fellini. A proposito de La strada è possibile leggere: “Perché La strada ci piace meno di altri film, meno dello Sceicco bianco? Crediamo che il senso di questa specie di rigonfiamento simbolico e ideologico, in cui consiste appunto La strada, sia da cercare proprio nella sproporzione o dislivello venutosi a creare tra l’intenzione autobiografica e le oggettive risultanze (universalistiche) del lavoro”. Sempre Pecori, condividendo pienamente il giudizio di Brunello Rondi citato integralmente, ripeterà: “Il film finisce, purtroppo, per risolversi in una modesta confessione autobiografica, persa nella fragilità di una troppo individualistica elegia”.

            Infine, il carattere ideologico e ossessivamente antiamericano, di una parte non minoritaria dell’intellettualità nostrana, viene ingenuamente svelato nella medesima monografia del 1974 da un Pecori che, sinceramente rammaricato, così dirà: “E non è un caso che La strada abbia avuto il suo vero trionfo a New York. Quel trionfo fu, purtroppo, il primo gradino di una pericolosissima scalata verso la trasformazione ‘spettacolare’ della

tematica e dell’ “arte” felliniana”.

            Povero Pecori, poveri noi.