ITALIANI STRANA GENTE di Pepi Burgio

 

Racconta Corrado Alvaro nel diario-memoire-raccolta di appunti dal 1927 al 1947, pubblicato nel 1950 da Bompiani col titolo Quasi una vita. Giornale di uno scrittore,  con il quale l’anno successivo avrebbe vinto lo “Strega”, che nei confronti di un tale, intento ad asportare l’asfalto da una strada di Napoli e caricarlo su di un carretto per farne poi commercio, si era levata la timida protesta di un cittadino. Altri era intervenuto più saggiamente in difesa del primo con un argomento che gli sarà parso inoppugnabile: “Tanto, non è roba nostra”. Il tema dei difetti dei meridionali è uno dei più frequentati dall’autore, che qua e là suggerisce a se stesso episodi, aneddoti, materiale vario da convertire in riflessioni comunque amare. In un appunto d’esordio del 1938, Alvaro afferma che i meridionali hanno ereditato dalla dominazione greca la tendenza alla mitomania, all’invenzione di favole su una vita “che in realtà è disadorna”. Alvaro, calabrese di San Luca, che in questi suoi ponderosi quaderni di appunti non sembra ancora lambito dagli studi antropologici ed etnografici, anticipando il metodo ricostruttivo utilizzato da Sciascia in qualche occasione, recupera uno scritto di Jean Baptiste Dupaty.

            Dupaty era un magistrato francese che nel 1785 aveva compiuto, secondo un vezzo diffuso tra una certa aristocrazia intellettuale del tempo, un viaggio in Italia. Da questa esperienza era sortito un racconto epistolare dal titolo Lettres sur l'Italie en 1785, dal quale lo scrittore calabrese estrae un passo significativo riferito a Napoli e ai napoletani, ma che appare propagabile all’intera realtà meridionale: “Legislazione del sole. Rilassamento universale in tutti i rapporti della vita. Non si fa niente che richieda una tensione, come certe voci non arrivano all’ottava. Si ingannano con una bricconeria singolare, ridendo. Non si fa a chi è più forte ma a che è il più fino. Confessano di avere ingannato e si vantano… Per non annoiarsi e per ingannare si altera la verità… Non potendo eccitare le sensazioni col pensiero, si chiedono sensazioni agli oggetti […] I vizi e le virtù sono allo stato bruto perché appena usciti dal cuore umano”. Il sottotitolo dell’opera, che recita Giornale dello scrittore, fa chiaramente riferimento all’esercizio quasi quotidiano di enucleare quei risvolti che pur appartenendo alla ordinarietà della vita sociale, finiscono per costituirsi in qualcosa di più di un semplice spunto, a cui la scrittura imprimerà una precisa fisionomia. Fra le varie impressioni dello scrittore, una si impone  sulle altre: talune caratteristiche della media e piccola borghesia italiana, afflitta da un inguaribile provincialismo sfociante in complesso d’inferiorità nei confronti dell’Europa. Lo stesso fascismo, dirà lo scrittore in un appunto del 1933 con sorprendente arditezza, è un tentativo di “europeizzare l’Italia”: “Non penso affatto che il fascismo sia un movimento nazionalista e patriottico”. Tuttavia a tale tentativo la classe media italiana, bollata alcuni decenni dopo da Pasolini come la più ignorante d’Europa, resisterà opponendovi “la caccia del posticino e della misera vita urbana” e improntando a questa angusta scena la società italiana nel suo complesso.

            Quando Alvaro scrive queste note negli anni trenta del secolo scorso, la sua strutturale distanza dal fascismo verrà nel complesso tollerata. Lo scrittore cioè si imporrà di non oltrepassare la “tavolozza allusiva” coglibile nelle pagine che precedono la guerra. Gli appunti della stagione drammatica vissuta nella capitale bombardata dagli alleati, tratteggiano l’abiezione estrema a cui si consegna la popolazione di Roma, anticipando di alcuni anni l’atroce, struggente narrazione che Curzio Malaparte concepirà con La pelle a proposito della plebe napoletana. È riguardo a ciò che la scrittura di Alvaro, libera dalle limitazioni retoriche dell’ossequio ai precetti narrativi, consegna alle nostre coscienze la materia incandescente di un’alta testimonianza civile: “Le donne romane sono diventate quasi tutte brune. Pare che gli americani siano entusiasti della libertà erotica latina. Molte ragazze hanno accumulato molto denaro trafficando il loro corpo” (1944). “Una ragazza di tredici anni, a Napoli, è stata ricoverata all’ospedale per i maltrattamenti dei genitori che le rimproveravano di guadagnare appena duemila lire al giorno coi soldati alleati, mentre la sorella portava a casa il doppio. I ragazzi, a Roma, non vanno a scuola perché guadagnano con mille mestieri attorno agli alleati. A Napoli un marito fa pagare dieci lire a chi vuole entrare e vedere sua moglie che aveva avuto un figlio moro. S’è scoperto poi che uno di questi bambini mori era truccato, tinto col nero fumo”.

            A sottolineare alcuni aspetti, ora paradossali ora ingenui, che rendono l’immane tragedia della guerra incuneata nella totale incomprensione degli alleati, meritano di essere riportati alcuni appunti che ad essi riserva Corrado Alvaro: “Churchill dopo la sua visita in Toscana ha manifestato stupore perché, fra le rovine, la popolazione gli ha sorriso ed è stata gentile con lui. Ma dunque non hanno capito niente: noi li abbiamo creduti veramente liberatori” (1944). “Si racconta di un americano che, vedendo il Colosseo nella sua vecchia rovina, abbia esclamato ‘Sorry’, come se la rovina fosse di ieri e della guerra” (1945).

            E infine il referendum monarchia-repubblica del 2 giugno 1946: “Il giorno di una dimostrazione repubblicana in Piazza del Popolo, le cameriere del mio caseggiato, affacciate alle finestre, commentavano: ‘Io non vado coi repubblicani perché sono malvestiti’”. A conti fatti non ci è andata poi così male.