CASA SUL MARE di Vito Bianco

Le due donne gli voltavano le spalle. E mentre a passi lenti e svogliati si allontanavano dalla consolle di abete con la collezione di statue africane, Ludina disse che con quel tempo avrebbero potuto mangiare in terrazza. Sentì il sudore alla radice dei capelli per la paura che si voltasse a cercarlo con lo sguardo, che con la mano paffuta lo invitasse a seguirle, che magari tornasse a variare il solito rimprovero ormai consumato sulla sua incorreggibile inclinazione solitaria e peripatetica. Sarebbe bastato un attimo di quegli occhi neri per sciogliere tutto il suo poco coraggio.
Con la voce che gli tremava, con la voce del traditore diviso tra la vergogna e il desiderio del guadagno, Federico disse che stavolta toccava a lui preparare la tavola, che stessero tranquille. Rimasto solo si ripeté che non se ne sarebbe accorto nessuno, di fotografie che la ritraevano ce n'erano tante, era davvero improbabile che la figlia, il fratello, o il vedovo tutt'altro che sconsolato notassero la mancanza di quella che voleva rubare. Ancora meno probabile era che lo scoprisse la madre di Ludina, l'amica degli ultimi anni, che da allora non aveva più voluto mettere piede nella casa.
Certo, avrebbe potuto chiederne una in dono, con la certezza di venire accontentato; ma come poteva essere sicuro che la scelta di Ludina sarebbe caduta proprio su quella che voleva? Un' aperta richiesta era da escludersi, troppo stonata e impudente sarebbe suonata all'orecchio della ragazza e anche al suo, sensibile ad ogni minima incrinatura delle convenienze.
Prese l'album azzurro con entrambe le mani e lo posò sul tavolo. Si sedette e cominciò a sfogliarlo. Si fermava a lungo su ogni immagine, come per ritardare in modo minuziosamente calcolato il momento in cui sarebbe arrivato alla pagina che custodiva quella che gli interessava. Quando fu il momento, la estrasse con un rapido movimento dalla custodia di plastica e se la nascose sotto la camicia, in attesa di farla sparire nel fondo della borsa con la biancheria di ricambio, il pullover nero e la biografia di Virginia Woolf che si era portato nel caso si fosse stancato della compagnia delle ragazze e del mare in ottobre. Rimise l'album al suo posto e andò in cucina a fare quel che aveva annunciato: apparecchiare. Una promessa è una promessa, e non era ancora accaduto che non ne mantenesse una.
Il sole era caldo ma piacevole; soffiava, con una forza contenuta, un maestrale tiepido; il girello di plastica di vari colori roteava a scatti, ora lento ora frenetico; un gatto grigio e peloso sonnecchiava in un angolo. Mangiavano senza fretta quel che era avanzato della cena del giorno prima.
Dopo il pranzo restarono in terrazza, abbandonati sulle sdraio di tela rossa, con gli occhiali da sole e i cappelli da baseball che Ludina aveva trovato in un baule pieno di vecchi vestiti e attrezzi da giardinaggio. Federico aveva preso la sua biografia, che dopo qualche minuto era scivolata al suolo senza fare rumore. Adesso se ne stava immobile, con le braccia perpendicolari ai braccioli (la punta delle dita sfioravano il suolo), la bocca socchiusa, l'espressione leggermente ebete dell'animale soddisfatto. Poco dopo, il leggero suono del vento contro le losanghe allegre del girello lo trasportò in una fiera di paese, e sulla lingua sentì il sapore dello zucchero filato, la sua inconfondibile dolcezza collosa.
Era sul punto di addormentarsi. Un'altra volta. Ma non voleva dormire. Non voleva perdere la vista del mare. Voleva sapere di come Virginia incontra il futuro marito. Raccolse il libro e chiamò Silvana. Le disse che voleva leggerle qualche pagina della biografia, che era l'unico modo per non cedere al sonno. Silvana fece sì con la testa e si alzò di scatto. Raggiunse Federico, che intanto si era tirato un po' su. Sollevò il vestito di cotone verde e si sedette a cavalcioni sulle sue gambe. Gli scostò con una mano i capelli dalla fronte e disse che poteva cominciare. Cominciò. Leggeva piano, facendo attenzione alla pronuncia, sapeva che comunque non lo avrebbe interrotto ma voleva farle vedere che le sue amorevoli lezioni a qualcosa erano servite.
Andò avanti per due o tre pagine, poi Silvana gli diede il cambio e continuò sino alla fine del capitolo, voce chiara e profonda e nessun segno di fatica. L'inglese le obbediva, gli tornava alla memoria come per incanto ogni volta che lo diceva, due amici che si ritrovano in un'intesa immutabile.
Poco prima del tramonto lasciò le ragazze a chiacchierare e scese in spiaggia. C'era l'ultima luce, le case che avevano una facciata più scura già cominciavano a ritrarsi, quelle col bianco restavano ancora nette contro il verde folto che dalla battigia si poteva credere nero. Quando giunse a un pelo dall'acqua si tolse le scarpe e arrotolò l'orlo dei pantaloni. Per un po' rimase fermo sulle sue impronte. Era rivolto verso la casa, di un bianco intenso, perentorio, inciso nell'atmosfera da una volontà dritta e sicura. Era come vedere il desiderio di chi l'aveva voluta, il suo desiderio, quello della donna che a cinquantacinque anni aveva deciso che era venuto il momento di avere una casa come quella per vivere o non vivere.
Senza rendersene conto s'era allontanato di un buon chilometro. Di colpo era scesa la sera. In lontananza, dalla parte del paese, poche luci di fanali; più oltre quelle trascorrenti delle non molte automobili che dall'aeroporto si muovevano a velocità costante nella direzione della città. Il vento si era fatto più forte. Gli parve che ora provenisse da terra; sollevava invisibili manciate di sabbia. Si sedette dove le onde non potevano arrivare e posò le scarpe in mezzo al triangolo delle gambe. La voce del mare era quella di sempre, resa più fonda e remota dall'oscurità. Immaginò di non tornare più alla casa e per qualche minuto si intrattenne con questa bizzarra fantasia: si figurò la crescente preoccupazione delle ragazze, l'agitazione, la ricerca infruttuosa. Chiuse gli occhi, come se volesse dormire. Pensava alla donna che non aveva conosciuto, a quella quasi vecchia che Ludina ricordava a stento, e a quella giovane della foto che aveva rubato e che aveva ancora addosso, incollata alla pelle dello stomaco, a sinistra dell'ombelico.
Il buio e il rumore del mare lo svuotarono di ogni pensiero, tranne quello che da tutte le direzioni possibili convergeva sull'immagine della padrona della casa che li ospitava. La vedeva ridere, camminare, sedersi, mettersi il cappotto, infilare un paio di calze, bere una tazza di caffè, abbracciare un'amica, abbracciare un uomo. La vedeva sotto la doccia, addormentata, in terrazza, appoggiata alla balaustra, china sulle pagine di un libro. La vedeva sola che parlava a voce alta, per sapere di poterlo ancora fare. La vedeva accucciata in un letto troppo grande, nuda sotto le coperte che la schiacciavano.
Si era fatto tardi; doveva tornare. Si alzò, infilò il pullover che teneva sulle spalle e rifece con passo spedito la strada che aveva percorso due ore avanti.
Mentre saliva i cinque gradini che dal cortiletto portavano al vestibolo, gli giunse il suono di una risata, poi il suono di un battito di mani. Esitò prima di entrare, trattenuto da una insolita sensazione di timore, alla quale si mischiava un sentimento di intimità violata. Tirò fuori la foto e la guardò alla luce debole dell'ingresso. Perché quell'istantanea lo calamitava in modo irresistibile nella vita e nella morte della persona che vi appariva? La donna, in quello scatto, non veniva ritratta, ma appariva. Si avvertiva, osservandola a lungo e con attenzione, che quell'immagine casuale, e proprio perché casuale, non cercata, racchiudeva l'essenziale di quella vita, la sequenza algebrica breve e perfetta del suo svolgimento.
Più la guardava e più gli sembrava d'essere sul punto di afferrare, o meglio, di risolvere la sequenza, l'enigma di quella apparizione. Aveva forse trentacinque anni, nella fotografia in bianco e nero, i capelli lunghi e lisci, una camicetta aperta sui seni non grandi. Era seduta in un angolo del divano di pelle del soggiorno, il gomito destro sulla spalliera, la testa appoggiata sul palmo della mano, lo sguardo rivolto alla porta-finestra alla sua sinistra; l'altra mano, piccola, con le unghie corte era aperta sul basso ventre, con le dita nettamente separate. Indossava quelli che potevano essere dei pantaloni di lino scuro; teneva le gambe accavallate (la gamba destra sulla sinistra), i piedi nudi.
Una normalissima foto, a guardarla come di solito si guardano queste foto: con una inconscia prevenzione, con negli occhi un già visto che ci impedisce di vederle veramente.
Cenarono dentro, la temperatura di sera ridiventava autunnale, era più prudente restare al coperto se si doveva star seduti: spaghetti con pomodoro e basilico e vino bianco freddo. Dopo il limoncello se ne andarono a spasso per il villaggio. Nessuno in giro. Si sentivano i grilli, acquattati dietro le canne, invisibili e instancabili. Di tanto in tanto il prudente rumore di un motore, macchina o motocicletta. Passeggiavano godendosi l'aria pulita e la solitudine delle viuzze. La gente di questi posti va a letto presto, ama vedere l'alba.
Tornarono che era passata mezzanotte. Ludina andò in bagno e poi subito a letto. Federico e Silvana restarono in cucina a parlare, sorseggiando limoncello. Poi Silvana si alzò, gli diede un bacio sulla fronte e gli augurò la buonanotte. La camera di Federico e Silvana era nel piano rialzato. C'erano una grande libreria, un tavolo ampio di vetro e due sedie a dondolo di vimini. Uno studio, a quel che sembrava. La stanza del lavoro editoriale che la signora aveva svolto per trent'anni. Sulla parete dietro il tavolo, la riproduzione di un disegno di Matisse, un nudo di donna accovacciato: la semplicità della linea, la tattile illusione dei volumi, la lunghezza orientale degli occhi.
Di nuovo la fotografia. Federico la fece scivolare sul tavolo, e il movimento della mano fu quello che si usa per involare un passero, liberandolo dalla cattività. La spinse, la incoraggiò col gesto, si sarebbe detto che avesse sussurrato in un angolo del cartoncino parole di incoraggiamento. Era come se il movimento potesse agevolarne il decantamento, la colatura del segreto. Il rettangolo che racchiudeva l'immagine si bloccò al centro del tavolo rotondo, si impose, si attestò nell'oggettività naturale della situazione; una foto leggera, posata sul fermo sostegno di un tavolo di cucina, fatto per sostenere pesi e tensioni di varia natura.
Sulla destra un vaso stretto e lungo conteneva fiori secchi e altrettanto lunghi. Il vaso aveva figure astratte dipinte con tinte chiare, giallo, arancio, verde brillante. Era il vaso che guardava, la donna? O la parete? Oppure il punto in cui i due muri si univano a formare l'angolo? E qual era il punto di vista di chi l'aveva scattata?
Federico circondò il rettangolo unendo gli indici e i pollici, chinò la testa fino ad appoggiare il mento sulla superficie del tavolo e strinse gli occhi per vedere ancora meglio l'immagine, la donna dietro il suo simulacro. Si sentiva i battiti dentro l'orecchio, ma non si distrasse. Sembrava presa dal basso, da destra - la sinistra del soggetto, che stava seduto di tre quarti, con la linea del suo sguardo che attraversava in diagonale lo spazio visivo e lo oltrepassava, perdendosi in un al di qua fuori del quadro. La novità era un impercettibile corrugamento delle labbra, che creava uno strano contrasto con la distensione degli zigomi e l'apertura totale degli occhi, che avrebbero dovuto, sintonizzandosi istintivamente con la bocca, essere socchiusi.
Si accese una sigaretta e andò in terrazza, dove rimase in piedi a guardare la luna piena, in attento ascolto di tutti i rumori che faceva la notte a quell’ora.
Si tolse le scarpe e aprì piano la porta. Dal cielo lunare arrivava abbastanza luce per impedirgli di inciampare, e anzi dopo qualche minuto la luce era così forte che ne fu sorpreso e intimorito, l'insolita chiarezza lo disorientava, contrastava l'oscurità notturna quell’illuminazione che faceva pensare all'artificio. Fu svelto a spogliarsi. Sotto il lenzuolo Silvana gli voltava la schiena e il suo respiro non si avvertiva. Si girò sul fianco anche lui; ora si davano la schiena, due respirazioni separate, due corpi che cercavano il riposo. Sull'opposta riva del letto, lui adesso era alle prese con la solitaria difesa dallo spavento e con l'irreparabilità dei ricordi.
Federico udì il cigolio di un'imposta, che si mosse verso l'interno, cambiando la densità del chiarore. Da sotto venne un distanziato rumore di passi. Ludina ha dimenticato le ciabatte a Roma, pensò, uno scrupolo eccessivo le suggerisce di muovere un passo al secondo. Sul muro segnato da due strisce di luce bianca si erano disegnate le ramificazioni grigie di un albero; mentre cercava di visualizzarne la posizione rispetto alla camera Silvana si mosse, allungò le gambe, strusciò il viso sul cuscino. Fedele al centro di se stessa, immacolata, protetta da un'infanzia temporanea la ragazza si era ritirata in un bozzolo a prova di tempo, tagliata via fino al mattino dall'assenza di memoria. La invidiò, lei che dormiva quando lui si affaticava nella fallimentare ricerca del sonno.
La luce si mosse ancora. Un cane distante guaì: un lamento, un segnale notturno, un graffio sul cristallo del minuto. Un ombra davanti alla porta. Il contorno di una massa di capelli scomposti. L'imposta si richiuse, le strisce sul muro sparirono. Si addormentò, un filo di bava all'angolo della bocca socchiusa.
Le donne si sbracciavano per attirare la sua attenzione. Erano tante, troppe e lui non sapeva da chi andare. Andare da una di loro avrebbe significato offendere le altre, umiliarle. Così restava fermo, non riusciva a prendere una decisione, si tormentava, continuava a dirsi che da qualcuna doveva pure andare. Da quella distanza sembravano molto simili, ma lui sapeva che non erano simili, erano perfettamente uguali. Sudava, il sole di mezzogiorno gli bruciava le palpebre ma rimaneva inchiodato dov'era, non sapendo quale delle cento donne accontentare. Poi una di loro si mosse, lo raggiunse. Aveva gli occhi verdi, i capelli neri arruffati. Gli sorrideva senza parlare. Quando si avvicinò come se volesse baciarlo, Federico vide che aveva una cicatrice verticale sotto l'occhio destro.
Entrò Silvana e si svegliò. Gli aveva portato la colazione: un cornetto, una tazza di latte macchiato e tre fette biscottate. Posò il vassoio sul comodino e uscì. Mangiò il cornetto, bevve a metà il latte e lasciò dov'erano le fette biscottate, che non gli erano mai piaciute (informazione che, chissà perché, Silvana non riusciva a registrare). Poi si vestì e scese in spiaggia, non dicendo nulla alle ragazze che trafficavano in cucina.
C'era il sole, ma formazioni nuvolose si avvicinavano da oriente, minacciando di oscurarlo tra non molto. Un passo dopo l'altro superò con poca fatica il limite della sera prima. All'altezza delle ultime case risalì la larghezza della spiaggia. Raggiunse un muretto di calce, si pulì alla meglio i piedi dalla sabbia e si rimise le scarpe. Fece un centinaio di metri a caso, prendendo la prima strada che incontrò. Ad un incrocio si fermò, indeciso, le vie sembravano tutte uguali, pulite e deserte, con case basse, i cancelli di ferro dipinto, gli stessi dondoli nei cortili curati. A un uomo che usciva domandò se nelle vicinanza c'era un bar. L'uomo gli rispose che c'era, gli spiegò come arrivarci.
Il caffè era piccolo, disadorno, con un arredamento superato, di quelli che ancora sopravvivono nei piccoli paesi. Si sedette a un tavolino di metallo e ordinò una birra. Lo servì una donna in età, sessant'anni o poco più. Era l'unico avventore e perciò si sentì tranquillo, poteva prendersi tutto il tempo che voleva. Dopo due sorsate piene smise di bere e cominciò a guardare. L'aveva appoggiata alla bottiglia di Peroni, in favore di luce. Notò che la padrona ogni tanto lo sbirciava, attenta a non farsi scoprire da lui che ostentava l'aria di uno che non si sarebbe accorto di un fuoco nemmeno se lo avesse avuto sotto la sedia.
E un minuscolo fuoco ardeva sul bordo inferiore del cartoncino. Un raggio di sole che aveva attraversato indenne le corde di plastica della tenda della finestra alle sue spalle, la punta rastremata di una combustione innocua eppure brillante. Riparò con la mano quella parte, una linea alta un paio di centimetri. Il raggio colpendogli le nocche si affievoliva, ma all'altezza del volto un'altra luce rischiarava ora la superficie, animandone i tratti come al passaggio di una corrente elettrica. La donna sorrideva, con lo sguardo sempre obliquo che puntava oltre la cornice della rappresentazione. Federico spostò di pochi millimetri il rettangolo appoggiato alla bottiglia, e nel culmine della luce vide la cicatrice verticale sotto l'occhio, un ago bruno sotto la pelle chiara. La traccia profonda, la lacrima incisa si allungò fino a dividere a metà l'immagine.
Si portò la mano al viso e con le dita si toccò sopra lo zigomo destro. Non sentì niente, solo pelle liscia, l'umidità di una sottile pellicola di sudore. Si guardò la punta delle dita e vide, su quella dell'indice, una piccola goccia di sangue che si allargava.

 

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