L'ASSOLUZIONE di Vito Bianco

§ Racconto §
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In fondo l'ho sempre saputo che prima o poi l'avrei fatto, che avrei deciso senza decidere di entrare in quel negozio per dare vita reale a quelle che sino a quel momento non erano che fantasie da bagno, come le chiamo io. Le fantasie da bagno sono quelle fantasie che hanno nel bagno il loro habitat ideale, e prendono forma mentre ti fai la barba o stai sotto la doccia o sei impegnato ad evacuare il male del mondo nella forma chimica delle deiezioni. E' in quei momenti che qualcosa dentro di te cede; è in quei momenti che la vita appare per quello che realmente è, ovvero un ostinato e insensato andare alla deriva consumando una cellula al secondo nelle quattro vie di una città dove il male e la sofferenza abbondano e il peccato ha sin troppa carne da addentare, e quasi ti convinci che è qui su questa terra che scontiamo le mancanze e le debolezze che sono parti ineliminabili della nostra imperfetta natura.
Affinché mia moglie non venga mai a conoscenza di quanto confesserò nelle righe che seguiranno, firmerò questa testimonianza con un altro nome. Chiedo subito perdono e vado avanti.

Il nocciolo della questione potrei riassumerlo così: sono attratto come un orso dal miele da ogni minimo vestigio di sacro. La santità e la sacralità sono le mie stelle polari, nulla mi attira come uno scapolare, una pianeta o una tonaca. Troverete quindi del tutto naturale che mi piacciano alla follia i negozi dove vengono esposte e vendute le divise della ieraticità; dove si conservano e si offrono gli abiti per il compimento del rito religioso. E in ciò, devo ammettere, non ho pregiudizi confessionali: una mitria mi attrae quanto una kippà, un saio con la stessa forza di un talllit.
Questo nuovo di corso Vittorio me lo mangiavo con gli occhi tutte le volte che ci passavo davanti, cioè almeno due volte al giorno. Che meraviglia! Una vetrina lunga venti metri stracolma di abiti talari, tonache e cristi e santi di tutte le misure illuminata da una calda luce diffusa che riscaldava il mio cuore di vecchio e appassionato amatore di oggetti sacri e abiti per il culto.
Dopo settimane di tentazione felicemente respinta grazie a una volontà morale corroborata nel corso di lunghi anni di meditazione sui testi sacri, una sera in cui mi sentivo particolarmente afflitto per una ingiustizia subita al lavoro, che mi vanto di svolgere con rigore e competenza inappuntabili, ho fatto quello che fino a quel momento avevo soltanto immaginato nell’intimità del bagno, e anche lì con la paura che Antonia potesse leggermi nel pensiero e scoprire l’indegna fantasia che mi agita da mesi.
Mi feci un veloce segno della croce ed entrai. Un giovane commesso mi venne incontro e mi chiese con voce flautata in cosa poteva essermi utile. Dissi: “Sono padre Giulio Paolini; vorrei un glergyman e un rosario”. Il commesso mi guardò con espressione dubbiosa; poi si rimise in faccia il sorriso con cui mi aveva accolto e mi disse di seguirlo all’interno, dov’erano gli abiti talari e i sai. Mi trovai così in una stanza grande stracolma di quel che mi appassiona sopra ogni cosa; un odore tenero e profondo al tempo stesso riempiva l’ambiente e deliziava le mie narici. Sorrisi di felicità e inspirai una bella dose di quell’ineffabile effluvio.
Ed è proprio questa indicibilità che ora sarei tentato di rendere in deboli e imperfette parole italiane, se non sapessi quanto vano sia tradurre nel lessico umano ciò che per sua intrinseca natura mai potrà essere afferrato. E dunque, per un tempo che non sono in grado di calcolare, ristetti in una specie di estasi semivigile, in una contemplazione che avrei voluto far durare per ore.
Mi avvicinai a cominciai a esaminare da vicino le stoffe di quegli austeri abiti. Ma siccome il giovane se ne stava lì a un passo, non ebbi la libertà di fare la cosa che, fossi stato solo, avrei fatto istintivamente: portarmi al naso due, tre, cinque, dieci abiti per estrarre tutto l’estraibile da quei santi rivestimenti del corpo venerabile dei nostri sacerdoti. Invece dovetti accontentarmi di accarezzarli con la punta delle dita, osando appena una furtiva carezza col dorso della mano. Una tortura, insomma, come facilmente potrà immaginare chiunque abbia una mente umana o si sia trovato in circostanze analoghe.
Poi il commesso mi sciorinò i rosari. Ce n’erano di tutti i tipi, e non era per niente facile scegliere. Alla fine mi risolsi per bel rosario di similoro che aveva crocefisso di abete lavorato con una minuzia che mi commosse.
L’abito l’avevo già scelto. Il commesso stava preparando la confezione. Lo fermai. Dissi che lo avrei indossato subito. Il giovane restò con le mani sull’abito che aveva cominciato a piegare e mi guardò interrogativo. “Non serve” dissi, “devo andare a un ritiro spirituale e non ho tempo di tornare in canonica. Nella scatola metterò i miei vestiti”. “Come vuole” mormorò il commesso. Ma aveva ancora le mani sull’abito, come se volesse difenderlo da una profanazione. La mia.

Con calma cominciai a spogliarmi davanti al giovane commesso, che mi guardava con la bocca socchiusa dallo stupore. Forse voleva parlare. Probabilmente avrebbe voluto dirmi che non potevo spogliarmi lì nel negozio, che un cliente poteva entrare da un momento all’altro, un padre, magari un monsignore. Non so, forse a fermarlo fu la mia calma e il mio sorriso mite; sta di fatto che non disse nulla e continuò a guardarmi fino alla fine, fino al momento in cui indossai la tonaca e giunsi le mani per raccogliermi in preghiera. Quando riaprii gli occhi, mi accorsi che il giovane commesso aveva gli occhi umidi e le mani giunte. “Padre” disse con un filo di voce, “vorrei che mi confessasse… La prego, ascolti la confessione dei miei peccati”. “Certo, figliolo” dissi, “sono qui per questo”.
Mi avvicinai al banco, e il commesso mi fece il racconto dei suoi ultimi peccati. Gli diedi l’assoluzione e me ne andai. Il rosario in una mano e nell’altra i miei vestiti. Ero un uomo nuovo tra le eterne insidie del mondo.

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