UNA CITTA' E LA SUA ANIMA. Conversazione di Fausto D'Alessandro e Giandomenico Vivacqua su Agrigento*

GIANDOMENICO VIVACQUA - Il tema della nostra conversazione è una città, una comunità, la nostra, colta in un periodo di radicali trasformazioni: gli anni tra i cinquanta e i settanta del secolo scorso. A quando risalgono i tuoi primi ricordi adulti, consapevoli di Agrigento?
FAUSTO D’ALESSANDRO – I miei primi ricordi consapevoli di Agrigento risalgono al dopoguerra. Nel dopoguerra ero bambino, però ricordo molto bene alcune cose, ricordo come la gente vide nell’ingresso degli americani non un fatto di liberazione dal Fascismo – perché qua il Fascismo nostro era stato un Fascismo molto all’acqua di rose, come si soleva dire e come si è detto e come si dice tuttora. Ma lo vide come occasione di arricchimento, capì, ebbe immediatamente l’intuizione che esisteva uno spessore degli oggetti, delle automobili, delle motociclette, dei vestiti, della statura delle persone che dovevano diventare il modello. Io ebbi una percezione nettissima di questo… è lì che si rompe l’incanto, diciamo così, agrigentino, e ritengo siciliano. E’ lì che vengono cambiati interamente gli orizzonti e rinnovati i paradigmi: la ricchezza, il consumo, qualunque sia la base di partenza. E quindi sostanzialmente si scatena la corsa all’arricchimento. Ma l’arricchimento è un fenomeno globale, complessivo, della popolazione. All’arricchimento personale ci arrivano pochi. Ecco, allora, il riflusso continuo di questa città, che rapidamente si ripiegherà su stessa, nella ricerca clientelare del “posto”, del 27 del mese.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Quali erano i luoghi e le circostanze sociali della tua adolescenza, della tua giovinezza che meglio rappresentavano quello che tu hai definito “l’incanto agrigentino”?
FAUSTO D’ALESSANDRO – Il campo da tennis, il campo sportivo, il circolo Empedocleo, i grandi caffè con il biliardo, la Passeggiata o Viale della Vittoria, l’uscita dei ragazzi dalla scuola, il piccolo pedinamento che si faceva dietro le ragazze senza…
GIANDOMENICO VIVACQUA - E il tipo di socialità che si sviluppava, che si determinava in quei luoghi, si è persa completamente o si è ricreata, successivamente, in altri luoghi?
FAUSTO D’ALESSANDRO – Una socialità totalmente persa, perché quei luoghi che io ti ho alla rinfusa elencati erano luoghi dove si diventava amici per sempre, dove potevano esserci degli screzi ma c’era un profondo rispetto dell’altro. Non è che io stia cantando i tempi d’oro del buon Re Carlo, ma era così. Adesso il socializzare significa stare assieme per consumare qualcosa. La modifica è radicale, è una mutazione culturale, una mutazione della relazione. Quelli erano anni in cui si condividevano le cose e si aveva un rapporto di reciprocità a tutti i livelli, Giandomenico, dalle classi più abbienti, alle classi più povere, dai giovani agli anziani. C’era questo collante di rispetto, di buon gusto, di bon ton.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Ma rapidamente l’incanto svanisce. E Agrigento si trasforma, visibilmente in peggio. Per l’intervento di speculatori, certo, ma quindi anche per interventi e omissioni della politica, delle istituzioni, dei dirigenti della città. La città medievale arroccata, rupestre, che si era tramandata, potremmo dire in modo filologico, per molti secoli, in pochi anni trasfigura nella parodia di una città moderna. E tuttavia, questa trasfigurazione grottesca, che oggi scandalizza il mondo, nel mentre del suo avvenire, del suo accadere, non scandalizzava, ad Agrigento, i più. E io ti vorrei sentire su questo.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Ricordo che verso la fine degli anni cinquanta, per portarti un esempio molto illuminante, al mattino verso le 5,30, in Piazza Municipio, vi era un raduno di operai, i quali speravano di essere assunti, per quella giornata, per la pulizia della città. Questa assunzione la faceva un assessore della Giunta comunale, che su una sedia guardava quei manovali e ne sceglieva, su cinquanta, una decina. E questi lavoratori per quella giornata avrebbero pulito la città. L’indomani mattina la stessa cosa, e poi sempre la stessa cosa. Questo era il livello della città. Allora, un giovane sindacalista, Pietro Ancona, capì che questo era uno dei punti di attacco per costruire una sinistra agrigentina, e cominciò ad organizzare quei lavoratori, assieme a un altro giovane, Luigi Granata. Insieme, Pietro e Luigi, cominciarono a dire a quei lavoratori che quel reclutamento legato all’arbitrio di un piccolo potente era assolutamente ingiusto, era una lesione della persona, della sua dignità. Le riunioni con quei lavoratori cominciarono ad avere una loro sistematicità e nacque un nucleo di presenza operaia, che pian piano cominciò ad assumere proporzioni più vaste, 70-80 persone, alle quali Pietro e Luigi, e poi più tardi anche io, facevamo il discorso della loro dignità di operai. A mio avviso, con questa scelta politico-sindacale di Pietro Ancona si apre una nuova stagione e comincia la trasformazione della città, comincia ad esserci una sinistra non partitica, che viene dalla realtà più elementare della città ed ha una guida socialista, e che si aggiunge alla sinistra comunista, che si muoveva con schemi molto precisi, molto ordinati. E’ questo il primo nucleo di presenza operaia che non voterà più Democrazia Cristiana, che voterà a sinistra per la prima volta, che esce dallo schema e dalla rete clientelare, perché quella modalità di assunzione era lo schema clientelare, coniugato per i poveri, per i nullatenenti, per chi nulla aveva – poi il clientelismo si articolava in maniera diversa anche per altri strati sociali. Questa presenza si esprime nelle elezione comunali del 1960 con tre consiglieri, uno di 25, uno di 24 e uno di 23 anni. Sono queste forze che determineranno una modifica dell’organico che porterà, in quegli anni, ad adottare un servizio di nettezza urbana come struttura organica dell’amministrazione comunale. Questa significativa trasformazione nel costume, nella prassi politico-amministrativa può far capire il cambiamento essenziale che nella città si determina a partire dall’iniziativa sindacale, civile di Pietro Ancona. Naturalmente, questo apre a sinistra anche una nuova vitalità per il Partito Comunista. Da quella fase la sinistra, costituita dal Partito Comunista e da un nuovo Partito Socialista fondato sulle lotte, fronteggerà una straripante Democrazia Cristiana, che raggiungeva costantemente la maggioranza assoluta degli elettori agrigentini. Io vedo in questi fatti, in questa organizzazione, in questo nuovo rapporto tra giovani universitari (perché noi eravamo giovani universitari; io ero stato fino al 1959 segretario regionale dell’Unione Goliardica Italiana) e operai una sorta di collegamento, di amicizia che comincia ad avere rappresentanza nella piccola istituzione che è il Comune. Allora, parallelamente alle modifiche un poco selvagge dell’ urbanistica cittadina, cominciano a svilupparsi i germi di una nuova presenza politica. Da quel momento in poi ad Agrigento si fa politica, comincia una stagione di politica vera. La Democrazia Cristiana capisce questo fatto, si attrezza, riesce, utilizzando alcuni giovani che venivano dalla sinistra, anche dall’Azione Cattolica, a darsi una dignità, non più soltanto clientelare e padronale, di patto – perché questo era la Democrazia Cristiana – e diventa un partito. La partecipazione di lavoratori alla lotta sindacale, alla lotta politica, determina, quindi, una modifica complessiva: nasciamo noi socialisti, mentre i comunisti, come dire, acquisiscono una mentalità meno rigida, meno schematica, meno ideologica. Insieme smettiamo di predicare una ideologia, un futuro, una giustizia sociale da venire, ma cominciamo concretamente a operare nella realtà – come, per altro verso, gli stessi comunisti avevano fatto nelle campagne.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Questo avveniva nell’ordine politico del discorso, mentre sul piano fenomenico, per così dire, accadono dei fatti, in quegli anni, che nessuna forza di opposizione riesce a impedire e che vengono normalmente rubricati come epifanie della modernità. Parlo, ancora, della degenerazione urbanistica, della devastazione del centro storico. Affrettatamente si tende a troncare il discorso sulle responsabilità politiche e culturali di quella che io considero un’autentica catastrofe delle nostre prospettive civili, parlando di un ineludibile prezzo che si dovette pagare per il miglioramento delle condizioni materiali della città, affacciatasi al dopoguerra con un retaggio di pesante arretratezza. E tuttavia, l’esperienza di altre realtà, anche meridionali, testimonia che la modernità, con i suoi indubbi effetti benefici, non sempre si è presentata nelle forme mostruose dello sviluppo degenerato di Agrigento. Pensiamo a Ibla, a Ortigia, a Modica, al centro storico di Trapani, solo per fare qualche esempio a noi vicino. Ecco, io ti vorrei sollecitare ad un tentativo di spiegazione della peculiare distorsione della modernità agrigentina.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Potremmo avanzare una teoria, la teoria del salto. La Agrigento fatta di contadini degli orti, la Agrigento fatta da piccoli artigiani cristallizzati nella loro piccolissima bottega, la inesistenza di una borghesia all’altezza del nome determinano questa mostruosità, perché non c’è gradiente, non c’è gradualità, c’è un salto che trova sostanzialmente tutti impreparati, per cui Agrigento è terra di nessuno. Classe operaia non ce n’è. Borghesia non ce n’è. L’unica borghesia, come dire, con qualche visione sociale o civile, è una borghesia che ha i piedi tutti nel passato regime, a cominciare da mio padre per esempio, con tutto il rispetto e l’amore che ho avuto per lui. Ma è un ceto che però non vede, non ha una visione ampia della città e poi soprattutto non ha potere in questa città. Quindi, quel che arriva entra, sfonda. Quel che arriva non trova alcun filtro, alcuna resistenza, penetra e assume questi aspetti di mostruosità, ai quali tu giustamente, correttamente fai riferimento. Perché c’è un salto, non c’è una gradualità. Perché tutte queste mostruosità non sono fatte dagli agrigentini, sono subite. Sono arrivate, ma sono arrivate come arriva la pioggia, la tempesta, la tromba d’aria e trova casupole, trova una realtà non preparata per questa trasformazione, e quindi la subisce e le cose vengono su come lei hai viste, come le vedi adesso.
GIANDOMENICO VIVACQUA– E tutto questo accade senza che chi aveva sensibilità, cultura, formazione politica adeguate a cogliere la trasformazione in atto tenti di frapporsi, di rallentare, di avvertire la città di quello che stava accadendo. Cosicché gli agrigentini, in forza del “salto” di cui hai parlato, si scoprono improvvisamente cittadini di una città irriconoscibile, estranei a se stessi e alla loro storia. E in quel momento si spezza, si risolve – proprio nei termini in cui si risolve un contratto, che in questo caso è il contratto sociale – il rapporto profondo che lega il cittadino alla sua città. Un rapporto, la cittadinanza, che non consiste di una contingenza abitativa, né tanto meno di un casuale legame anagrafico, ma è la relazione vitale con un luogo che è il deposito di memorie condivise, familiari e collettive; un luogo che simbolicamente addensa il senso della storia di generazioni che si succedono. L’irruzione del cemento armato, nelle forme orribili di palazzi alti anche decine di piani, in una città collinare, tufacea, di case basse, svuota di significato quella relazione. I luoghi della memoria e della socialità o radicalmente scompaiono (è il caso, ad esempio, della Villa Garibaldi, del Cinema Estivo, di alcuni vertiginosi Belvedere), o trasfigurati languiscono, aduggiati dalle nuove costruzioni, in un cono d’ombra fisica e morale che li rende del tutto invisibili o irriconoscibili. Nessun luogo simbolico che possa fungere da nucleo identitario di una nuova cittadinanza sostituisce la vecchia “cittaduzza murata”, in un così rapido volgere della cose, e questo libera gli abitanti di Agrigento dai freni inibitori consolidatisi nella pratica millenaria del contratto sociale – con quello che ne segue su più vasta scala: l’assalto tentato alla Valle dei Templi, quello ampiamente consumato alla costa, la costruzione di quartieri periferici che non riflettono l’idea razionale di una città, ma esprimono un arrembaggio edificatorio a totale uso e consumo degli speculatori e per niente delle famiglie – che abbandonando i quartieri d’origine, s’indebiteranno per acquistare appartamenti incerti in condomini di campagna.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Il silenzio che accompagnò questo fenomeno secondo me dipese da due perverse ragioni. Una è il fatto che tutto questo portava lavoro e denaro, quindi migliorava i consumi, migliorava la condizione delle classi povere, e pertanto non poteva essere osteggiato in maniera credibile dalla sinistra comunista. Il P.C.I, che era l’unico partito di sinistra, non poteva combattere un momento di lavori pubblici e privati, perché questo sarebbe apparso incomprensibile al suo elettorato. L’altra era la presunta visione avanzata della speculazione edilizia, che veniva gabellata come un momento di crescita della città. Questa città, sostenuta dagli stipendi di quattro uffici pubblici, vedeva nei cantieri una possibilità di sviluppo, per cui tutti accettavano la trasformazione come positiva. È chiaro che poi non si aveva la forza né per correggere i quattro piani in più, né per contrastare le mostruosità – tranne l’avvocato Malogioglio, impegnato in una sorta di guerra ai “tolli”. Le mostruosità venivano, come dire, garantite da queste perverse congiunzioni, dall’esigenza del Partito Comunista, della Chiesa, della Democrazia Cristiana di promuovere il lavoro, convergente con l’esigenza degli speculatori, che il lavoro lo promuovevano secondo il loro criterio. Pensa che il primo piano regolatore della città è del 1977, quando il tessuto era stato già strappato. Psicologicamente, tu chiedi, come è che questa città non aveva nessuna cura della memoria? Ma io non ho mai creduto all’esistenza di un agrigentino colto, nel senso di un cittadino legato alla propria storia e alla propria tradizione. L’agrigentino è da secoli sfibrato, e quindi sostanzialmente incapace di una vera reazione. Lo dimostravano i voti, e continuano a dimostrarlo forse anche adesso, se ci pensi. Queste votazioni massicce per i partiti di governo a tutti i livelli, provinciale comunale, regionale, nazionale: non si può dire che l’agrigentino sia stato un cittadino consapevole. È un cittadino sfibrato da secoli di povertà, da secoli di ignoranza, da secoli di emarginazione. Emarginazione che continua ancora, visibile: non abbiamo neanche autostrade, ad esempio; forse è l’unico capoluogo di provincia, il nostro, non raggiunto da autostrade. Queste sono tutte componenti che possono dare una spiegazione di questa apatia, di questa abulia, di questa inerzia politica, civile, che tranne alcune aperture sporadiche, continua, a mio avviso, a essere egemone, dominante.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Poi c’è la frana, nel 1966. Un evento traumatico che rivela all’opinione pubblica nazionale il “caso Agrigento”. E forse solo in quel momento qualcuno, pochi, comincia a riflettere sul disastro anche ad Agrigento.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Una premessa. La frana è stato un evento di modestissima portata. L’idea che noi abbiamo avuto una Pompei, un terremoto di Messina è un’idea assolutamente priva di fondamento storico. La frana fu un piccolissimo evento, molto circoscritto, in una zona molto periferica della città, una zona sostanzialmente in via di abbandono. È chiaro che da tante parti per quelle convergenze perverse si giunse a enfatizzarla, la si enfatizzò e la si fece diventare un caso nazionale, con effetti perversi. Gli effetti perversi sono lo spostamento degli abitanti della zona Addolorata in un quartiere satellite urbanisticamente sperimentale qual è Villaseta, una mostruosità di laboratorio urbanistico, perché si riteneva che in quelle condizioni la gente potesse vivere meglio. E’ è stata la peggiore scelta possibile. E questo ha alimentato la sfiducia. Accadde, immediatamente dopo, un fenomeno di rimbalzo: gli agrigentini capirono che erano tutte chiacchiere, che alla frana era stata data una risposta completamente sbagliata, una risposta che serviva alla sinistra per battere grancassa; che serviva alla Democrazia Cristiana per liquidare alcuni conti interni e far cadere alcuni uomini che erano, come dire, superflui alle logiche interne del partito; che serviva a determinare alcune grosse speculazioni, come ad esempio il viadotto Morandi – tu la vedi la bruttezza del viadotto Morandi, vedi quanto sia estraneo al contesto. E questi fatti, in un paese, in una cittadinanza assolutamente apatica, abulica, accentuarono la tristezza, la delusione, e abbiamo continuato ad esprimerci come per altre grandi calamità nostre, quali la mancanza d’acqua, la povertà, la mancanza di servizi, nel solito modo fatalista e rassegnato. La frana fu, quindi, un piccolo male dal quale scaturì un grande male – perché Villaseta è un grande male, il viadotto Morandi è un grande male. E soprattutto la frana diede una sorta di lasciapassare agli speculatori, che cercarono di cogliere in quella occasione la possibilità di una slavina di lavori pubblici.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Tu hai descritto l’agrigentino come un cittadino sfibrato.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Sfibrato, e di conseguenza apatico e abulico.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Sfibrato, cioè logorato nelle sue attitudini civiche dalla povertà, dalla marginalità.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Dal fatto che non si sia mai realizzato nulla in questa città. La città, ad esempio, aveva ottenuto un cospicuo finanziamento per il risanamento del Centro Storico, miliardi che non so per quanto tempo giacquero nella disponibilità della città. Non fu fatto nulla, non fu spesa una lira e il finanziamento fu dirottato a Siracusa, mi pare, che lo impiegò per risanare Ortigia. Guarda adesso l’aeroporto. Io personalmente penso che l’aeroporto qua non debba esserci, perché non ne abbiamo bisogno, ho una visione diversa, però questo discorso dell’aeroporto si è fatto ed è dieci anni che si fa. Si può dire che le orecchie degli agrigentini siano attraversate da flatus voci, capisci? E quindi l’agrigentino è sfibrato, non crede, non può credere, perché ha imparato che qualunque programma di sviluppo per la città è semplicemente una enunciazione, e ormai sa che questa enunciazione non avrà nessun seguito. Ecco dove nasce lo sfibramento.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Ma questo, anziché determinare un rigetto del ceto politico che ha gestito lucrosamente la palude che hai descritto, determina, assurdamente, un’adesione sempre più vasta attorno alla, come dire, tradizionale maggioranza conservatrice.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Soprattutto questo sfibramento ha determinato, sta determinando e determinerà ancora un fenomeno gravissimo per la città, letale: l’emigrazione. Se tu hai un contatto diretto con le famiglie, scoprirai che ogni famiglia ha figli che stanno nel nord, che se ne sono andati nel nord per andare a lavorare, ma non necessariamente come emigranti poveri. Questo è un fenomeno che avviene in tutte le famiglie, anche in quelle più abbienti. Non si resta ad Agrigento, non c’è motivo di restare ad Agrigento. Non è rassegnazione, è uno spostamento di obiettivi. Avendo compreso la sostanziale impossibilità di combattere una situazione che è molto sfuggente, è un muro di gomma, la nostra gioventù se ne è andata, questa è la cosa più grave che stia accadendo ad Agrigento, qualcosa di equivalente a una denatalità massiccia, che anziché avvenire a livelli infantili, avviene a livelli di prima giovinezza. La nostra città è priva di giovani, che se ne sono andati e se ne andranno tutti in una misura che non è censita, perché nessuno se ne occupa, ma ha dimensioni notevolissime.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Poco fa tu indicavi come uno degli effetti di questo sfibramento l’adesione elettorale, sempre più ampia, ai partiti di governo. Sembrerebbe un paradosso.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Certo, ognuno si protegge. Ma non perché i partiti di governo siano tirannici, ma perché il partito di governo ti garantisce una sorta di quieto vivere, per quelli che hanno una qualche acquisizione, e quindi mi sta bene. E qual è l’alternativa ai partiti di governo, l’opposizione? Perché, c’è un’opposizione? la Regione Sicilia, il nostro Parlamentino Regionale vede un’opposizione? Io non me la sento né di dare ai partiti di governo la colpa di tutto (come si usa fare, ma mi sembra poco onesto), né agli stessi cittadini. Il cittadino è una persona che deve scegliere, ma per scegliere deve esserci un’offerta, e questa offerta non c’è, Giandomenico, questo è il punto. Non c’è un’offerta di linea politica, di opposizione perseverante. Ci sarà qualche sprazzo, ma poi non c’è niente. Se tu pensi alla carenza di dibattito politico civile sui programmi dell’Assemblea Regionale… insomma, è lì la chiave di lettura.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Tu fotografi una condizione gravemente malata della città.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Un ritratto che si può estendere alla regione, con tonalità diverse, ma siamo là.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Sebbene mi sembra che la condizione di Agrigento presenti aspetti peculiari, sconosciuti da realtà anche molto vicine sul piano geografico, come ad esempio Ragusa, Trapani o Enna.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Una delle possibili cause di questa situazione penso sia il fatto che Agrigento non sia stata dotata di nessuna infrastruttura. Noi abbiamo avuto interventi pubblici nell’edilizia, ma un’edilizia, diciamo così, di consumo, non un’edilizia di sviluppo. Noi abbiamo un bellissimo tribunale, ma un tribunale non è un’infrastruttura. Noi abbiamo un ospedale straordinariamente superdimensionato, ma non è un’infrastruttura, non serve per creare nuova ricchezza. Noi non abbiamo fatto nessuna politica della pésca, nessuna politica dell’agricoltura. Ragusa ha certamente un contesto agricolo avanzatissimo, Trapani la conosco poco, Enna o Caltanissetta non mi pare che siano tanto più avanzate di Agrigento
GIANDOMENICO VIVACQUA – Ma è un fatto che nessuna di queste città ha un Centro Storico degradato e mortificato come quello di Agrigento. Senza dire che Ortigia e Ibla sono probabilmente dei modelli positivi di livello nazionale. Insisto su questo punto, perché mi sembra decisivo. Penso, infatti, che uno dei problemi principali della nostra comunità sia il fatto che gli agrigentini non si percepiscono più come cittadini, se per cittadino noi intendiamo un soggetto che ha dei diritti di cittadinanza da rivendicare, essendo pronto ad adempire ai propri doveri civici. Ad Agrigento, in luogo del cittadino così inteso, mi sembra abbia larga fortuna la figura del mero abitante, un soggetto che non ritiene di avere, in quanto tale, né diritti (i servizi, l’acqua, la pianificazione equa e coerente del territorio) né doveri (la fedeltà alle leggi), ma si riserva la possibilità di rivendicare alla sua fazione, al capo politico che lo protegge, qualche privilegio, qualche possibilità aggiuntiva per se stesso, per la famiglia, per i figli. Di questo, mi pare, si alimenti lo scambio politico più diffuso ad Agrigento: consenso in cambio di protezione privata. Ad Agrigento si è cittadini della propria famiglia, si fa carriera dentro la propria famiglia, tutte le mediazioni e le acquisizioni passano da questa famiglia più o meno allargata (gruppo, clan, tribù), che in qualunque modo protegge e tutela i suoi membri. Perché l’agrigentino si attarda in una forma tanto arcaica di scambio politico? Perché ha smesso di identificarsi con la città, laddove una città è soprattutto il suo Centro Storico. Una città è, simbolicamente, antropologicamente, il suo centro storico. L’uomo che costruisce una città compie un’operazione cosmogonica, religiosamente posa una pietra in un punto che diventa il centro del mondo e poi attorno a quella pietra, a quell’altare, a quel cerchio magico, costruisce la sua città, il luogo delle origini e del ritorno, se ci sarà un ritorno. Il centro storico assolve a questa funzione simbolica insostituibile: è il luogo dell’identità. Ad Agrigento il centro storico, per le condizioni disperate in cui versa, ha smesso di assolvere alla sua naturale funzione identitaria. Di conseguenza, ad Agrigento non esistono neanche quartieri periferici, perché c’è una periferia laddove c’è un centro e quindi c’è un rapporto che può essere dialettico, può essere conflittuale, la periferia può pensare di essere dimenticata dal centro. Ma ad Agrigento non c’è una periferia, ci sono luoghi eccentrici, escresciuti per metastasi, senza rapporti col centro. Questo che cosa determina? Determina l’impossibilità di una cittadinanza, l’inesistenza di un’idea condivisa di città, perché questa città semplicemente non esiste e al suo posto c’è una giustapposizione di abitanti che insistono più o meno negli stessi luoghi.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Io condivido quello che tu stai dicendo, pienamente. E’ così, è questo il declino, quale che sia l’eziopatogenesi del complesso sintomatico. Ma il mio non è pessimismo, non è tristezza, è la constatazione di un declino inarrestabile, non più recuperabile. Quelli che vivono nella città adesso non hanno più bisogno del Centro Storico perché non hanno più bisogno della relazione, perché vivono con la televisione e con il computer. E’ cambiato anche il piacere di stare nella città, nella propria città, non c’è più questa buona ragione, questo attaccamento ai colori, tutto ormai è fungibile. L’ipotesi che la propria figlia vada a fare la bidella a Vercelli o il proprio figlio vada a fare l’impiegato alla provincia di Imperia o di Livorno distrugge la memoria per una ragione fisiologica: io non posso essere attaccato ad una cosa dalla quale necessariamente mi devo allontanare e distaccare. Come si fa a costruire? Le persone non felici non costruiscono nulla, non possono costruire nulla. C’e sfiducia, e quindi nasce una sorta di precarietà psicologica. La città diventa un momento abitativo, transitorio, temporaneo in attesa di miglior sistemazione. Noi siamo veramente nella dimensione prioritaria della migrazione.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Ora, avendo fatte queste diagnosi, queste ricognizioni, un po’ affrettate per la necessità del nostro spazio, e forse un po’ troppo crepuscolari, mettiamoci dal punto di vista di resiste, di chi rimane, e rimanendo non dispera di potere ripristinare un sentimento comunitario, per una città in cui non sia indegno vivere, mettere al mondo dei figli, mandarli a scuola, eccetera.
FAUSTO D’ALESSANDRO – A mio avviso bisogna fare delle riforme, la prima riforma da fare è la restituzione della politica al suo carattere di partecipazione civile e gratuita. Bisogna depurare la politica dal professionismo, che l’ha stravolta e cambiata. Questa è la prima riforma da fare. Tu non puoi agire e modificare, riformare una comunità, motivarla, agitarla, promuoverla se sei un professionista della politica già a livello di Consiglio Comunale. Se tu percepisci uno stipendio a livello di Consiglio Comunale non hai proprio nulla da fare, sei semplicemente, diciamo così, una sorta di funzionario pubblico eletto. Questa è una priorità assoluta. La seconda riforma necessaria attiene ad alcune nostre strutture, come la Provincia e la Prefettura. Mi limiterei a queste, perché sono quelle che devono essere immediatamente trasformate. La Provincia non serve a nulla. Io sono stato consigliere provinciale, sono stato Presidente della Commissione bilancio, conosco quindi l’aspetto finanziario, le risorse della Provincia e le funzioni che essa ha, e so che assolutamente non funziona, non determina modifiche per il semplicissimo fatto che è una sovrastruttura ai Comuni, non entra nella vita dei comuni, non accorpa le somiglianze, non accorpa le contiguità economico-finanziarie, quindi è una sovrastruttura inesistente. La Prefettura è molto depotenziata, è stata molto depotenziata nei fatti, quindi i casi sono due: o la si potenzia, rinnovandola, o la si toglie. il Prefetto resta nell’immaginario collettivo come una persona alla quale forse ci si può rivolgere per avere una qualche giustizia, perché ancora c’è gente che dice: io vado a parlare al Prefetto. Il Prefetto, però, ha pochissimi poteri, sentiti sempre meno dalla popolazione, purtroppo, e quindi o lo si cambia o lo si toglie. Si potrebbe cominciare da lì, da una abolizione della Provincia e da una Prefettura che abbia anche una funzione di raccordo politico ed economico tra diversi Comuni. Io immagino un Prefetto che sia un momento politico più che amministrativo, che possa individuare i punti di continuità tra diversi Comuni, che possa essere il punto di raccordo tra la provincia intesa come territorio complessivo e le altre istanze politiche, la Regione, il Governo nazionale.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Ma qualunque riforma istituzionale, dovrebbe tener conto del mondo quale verosimilmente sarà già fra dieci o vent’anni, per non rischiare di essere arretrata rispetto ad una realtà che continua a evolvere vertiginosamente.
Oggi pomeriggio mi è capitata una cosa. Uscivo dalla sede del Polo Universitario, di fronte al quale c’è una scuola secondaria superiore e siccome, ahimé, ci troviamo in campagna (e anche questo è un tema: abbiamo portato le istituzioni dell’educazione fuori dalla città, con una perdita reciproca e della città e di queste istituzioni), cinque allieve di secondo o di terzo anno dell’istituto ITC “Sciascia” mi hanno chiesto se potevo accompagnarle in centro, dato che era già tardi e l’autobus non passava. Le ho accompagnate, naturalmente, e così ho scoperto che queste cinque ragazzine, tutte di origine magrebina, del Marocco e della Tunisia, venivano da un laboratorio teatrale organizzato dalla scuola, che parlavano molto bene l’italiano, essendo nate tutte ad Agrigento, e che tra di loro parlavano l’arabo, fluentemente per quello che io ho potuto capire, e il francese. Le battute di spirito le scambiavano spigliatamente in siciliano, “che abbiamo imparato per strada” mi hanno spiegato. Le ho interrogate su come si trovassero ad Agrigento, e un po’ stupite mi hanno risposto: “Come ci troviamo? Siamo agrigentine, ci troviamo bene, è la nostra città, stiamo bene, ci piace e poi sappiamo che Agrigento in passato ospitava gli arabi, era araba, ci sono delle strade che hanno dei nomi arabi, Bibbirria per esempio. Qui stiamo bene.” Ho avuto l’impressione che quelle cinque adolescenti avessero una marcia in più, rispetto ai loro coetanei autoctoni.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Questa è gente che si farà avanti.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Poi ho pensato alla proposta del nostro Ministro della Pubblica Istruzione, quella delle classi differenziali per stranieri. Forse le classi differenziali ci vogliono, ma per i nostri giovani attardati, che spesso hanno difficoltà drammatiche con l’italiano.
FAUSTO D’ALESSANDRO- Il realismo, l’empirismo razionalista porta ad aiutare chi deve essere aiutato. Quelle ragazze non devono assolutamente fruire di strutture di sostegno, perché sono validissime. Il Ministro, il Sottosegretario vivono una condizione astratta, non sono immersi nella realtà, vivono una situazione astratta finalizzata alle elezioni, alla tutela delle ire, dei furori razzistici che qua e là emergono nel cuore delle persone. Tutto questo però è molto superato, non serve, è superato perché non serve. Queste ragazze che tu hai incontrato avranno un loro splendido avvenire, seguiranno la linea della crescita e dell’affermazione individuale.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Ma forse ci vuole un passo in più, una consapevolezza matura del fatto che ci sono già dei cittadini agrigentini di origine magrebina, africana o cinese, e che forse possono rappresentare una chance di salvezza della nostra città. Forse dobbiamo cominciare a pensare l’immigrazione come un’occasione per trascenderci, per rigenerarci.
FAUSTO D’ALESSANDRO – No, non è così, perché queste persone che vengono, in breve tempo acquisiscono il nostro modello, acquisiscono tutti i nostri limiti. Anzitutto non vengono da luoghi di altissima civiltà, non vengono dal benessere e quindi non hanno un metro rigoroso, per cui il fatto che la loro situazione personale migliori è già moltissimo dal loro punto di vista e tutte le loro energie sono orientate, polarizzate verso questa crescita personale, e poi dopo un poco prendono le forme dell’ambiente nel quale stanno. Come vuoi che diventino enzima politico, se la politica noi l’abbiamo già individuata come un luogo cristallizzato, spento, professionalizzato. Come possono operare una modifica, se lo schema nel quale entrano è uno schema asfittico, litigioso, fatto di appartenenze, fatto di fedeltà. E’ molto romantico, Giandomenico, aspettare una palingenesi da parte di gente che ha problemi molto elementari, ma è una fuga in avanti.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Però a me sembra che se Agrigento possiede, per usare un’espressione abusata, una vocazione, sia quella di essere un porta dell’Europa aperta sul Mediterraneo, per scambi economici e culturali. C’è un fermento nei paesi del Magreb che ieri non era sospettabile. Le economie di questi paesi non sono più quelle che noi potevamo conoscere venti anni fa. E la nostra provincia ha tre porti sul Mediterraneo.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Io credo che questa sia una fuga in avanti, un’illusione. Noi dobbiamo dare la possibilità a queste persone di trovare buone scuole, buone università, servizi, infrastrutture, in modo che possano dare la loro energia.Ma questa energia si spegne, viene sfibrata se entra in una situazione asfittica e cristallizzata. E ritorniamo al discorso delle strutture, senza le quali non si va da nessuna parte. Senza una scuola che sia rigorosa, senza mezzi di trasporto che non ti facciano arrivare a casa stordito e stanco non si va da nessuna parte. Se non c’è una nuova visione dell’uomo, che significa anche una visione di impegno, una visione di aiuto reciproco, di sostegno, di tutoraggio, allora tutto il resto è retorica, pericolosa retorica, perché illude e poi delude con tutte le conseguenze e i reflussi che hanno le delusioni.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Ma la retorica ha una tradizione importante, è l’arte della persuasione attraverso l’argomentazione. La Costituzione Americana è molto retorica, contempla, ad esempio, un diritto alla felicità, ed ha generato il più grande paese del mondo.
FAUSTO D’ALESSANDRO – La retorica può essere sostituita dalla serietà.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Non c’è serietà senza scopo, senza una missione. Qual è la missione della nostra comunità, oggi che l’agricoltura e il turismo arretrano rispetto alla concorrenza di prodotti competitivi sul piano della qualità e del prezzo? Partiamo da una consapevolezza di contesto: dove siamo? Sul Mediterraneo. Perché non costruire a partire da questa evidenza, la nostra missione. Perché non ci attrezziamo per l’accoglienza, per la mediazione culturale, per l’avviamento di studenti stranieri a studi di eccellenza. Questo potremmo essere, per noi e per l’Europa.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Quello che tu dici a parte il soffio, lo spirito umano che anima le tue parole, è un tema vecchio della politica siciliana, sicilianista. Io sento queste cose dal ’60, le diceva Lauricella, le ha ripetute Prodi fino a qualche tempo fa. Io ti dico una cosa, che se noi non restiamo fortemente europei, noi rischiamo di corrompere queste persone, noi rischiamo di mettere queste persone in una sorta di caos dal quale usciranno come siamo usciti noi, molto individualisti, molto convinti che ognuno deve tirarsi la sua macina, eccetera. Se priorità c’è nei confronti dell’accoglienza è di rendere le nostre strutture accoglienti. La prima cosa da fare è pulire la nostra casa, sistemare la nostra casa, ristabilire le nostre regole per noi stessi, non aspettare che un mescolamento ne crei qualcosa di nuovo. Un mescolamento non ha mai creato un nulla di nuovo, ha creato nuove egemonie, nuovi padroni, nuovi servi. Se lo schema, se l’area di accoglienza non è un’area che ha le sue precise regole, la consapevolezza dei suoi diritti e dei suoi doveri, chi entra in questa area inevitabilmente ne viene corrotto.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Ma io consento assolutamente su questo, Fausto, e dico che essere agganciati all’Europa per noi è vitale, ma penso che il nostro modo di essere europei è di fare bene dentro il sistema Europa la nostra parte e la nostra parte oggi è quella di essere, per la nostra realtà geografica in primo luogo, la porta d’Europa sul Mediterraneo.
FAUSTO D’ALESSANDRO – Ma se questa porta d’Europa è una porta fatta da cattivi artigiani, da cattivi medici, da cattivi ingegneri, da cattivi avvocati, da cattivi lavoratori, se noi diamo una dimostrazione quotidiana del nostro pressappochismo, che porta siamo? Tu puoi accogliere nella maniera più generosa, puoi trasformare la Sicilia in un luogo di grande cristianesimo, ma non è soltanto questo il punto. Il punto è che noi siciliani nel momento in cui accogliamo si sia in grado di offrire un esempio, che si possa far capire che questo è un luogo dove c’è la legalità, c’è il rispetto dei diritti, c’è il rispetto dei doveri, come hanno fatto in Germania. In Germania hanno civilizzato l’emigrante, la Germania è piena di emigranti di tutti i generi. E io ho conosciuto i nostri emigranti che tornano per le vacanze e ti dico che hanno appreso una grande lezione, che è la lezione della legalità. Non c’è emigrante agrigentino, raffadelese, di Aragona o di Palma di Montechiaro che non ti dica che là si versa sin dal primo giorno il tributo previdenziale, che il sistema pensionistico che continua a funzionare malgrado le attuali difficoltà, questo fa il cittadino, il sapere di non essere sfruttati. Noi dobbiamo mettere ordine su questo sfruttamento che si fa sugli emigranti, tu pensi che si possa esaltare la vocazione mediterranea quando poi queste persone vivono come schiavi?
GIANDOMENICO VIVACQUA – Io penso di no, ed è l’essenza di quello che penso.
 
*Il testo che pubblichiamo nasce a corredo della mostra 'Foto Arena'
 
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