L'EUCALIPTO IMPURO di Vincenzo Campo

Ho visto caduti sotto i colpi di una scure a me ignota alberi frondosi e imponenti e m’è tornato in mente - sapete i dejà vu? - quando, una volta, ragazzino, una cinquantina d’anni fa, fuori stagione andavo in macchina, una seicento bianca della Democrazia cristiana, accanto a mio padre che guidava, verso San Leone. Fui attratto dal fatto che dei molti e già allora imponenti alberi che costeggiavano la strada nel tratto in cui ora c’è il Villaggio Peruzzo, erano rimasti soltanto dei tronchi; tronchi e piccoli monconi dove prima c’erano rami che sorreggevano fronde che ricordavo enormi. Mi sembrò uno scempio; mi apparvero, quegli alberi, come giganti nudi e perciò inermi e privi di forze, domati e dominati da un nemico minuscolo e apparentemente insignificante, ma che aveva vinto perché dotato di scure. Non so proprio perché un simile ricordo, in definitiva banale, mi sia rimasto impresso nella memoria e perché mai - non fu questa, ora, la prima volta - mi torni in mente; so però che ricordo pure che alla fine i giganti, allora, quella volta, alla fine vinsero i nani con la scure: ricordo perfettamente che solo dopo qualche mese, nel rifare la medesima strada, ancora una volta con mio padre, vidi, e questa volta con gioia, che quegli alberi mortificati a tronco e monconi avevano rimesso rami e foglie, avevano riformato le loro fronde maestose ed erano tornati a dominare la strada per San leone.
Ora di nuovo il nano con la scure s’è accanito contro i giganti frondosi. Allora, quella volta quando ero ragazzino s’era trattato, io credo, di una semplice potatura radicale che gli alberi di quel tipo sopportano bene e che, in definitiva, superano rinascendo con vigore forse ancora maggiore di prima.
Pericolo, salvaguardia dell’incolumità pubblica è stato, pare, in una di queste ultime occasioni e ''pulizia etnico-colturale'', in un’altra. Paura ed eliminazione del diverso il comune denominatore di questi pesanti abbattimenti che ora come allora, ora da quasi vecchio e allora quando ero poco più che bambino, mi lasciano molto, molto perplesso. E mi fanno aver paura di chi ha paura e di chi non sopporta il diverso.
Scusate: parlo, sparlo, giro in tondo, ricordo, vagheggio e non dico di che parlo; parlo di eucalipti.
E mi sento un po' a disagio a parlarne mentre non lontano da qui uomini diversi da noi solo nel colore della pelle, nella lingua e nella complessione vengono ricacciati dai luoghi di fame e di morte da dove tentano di fuggire; o mentre altri uomini, del tutto simili e direi uguali a noi, in una terra che è detta Santa ma che è teatro di cose profane di vere profanazioni, si ammazzano tra loro e ammazzano a casaccio bambini, vecchi e donne incinte senza nessuna ragionevolezza e senza che nessuno di loro abbia una vera ragione o un vero torto. Ma è proprio l’avversione mia dell’irragionevolezza che mi fa continuare l’apparentemente banale discorso sugli eucalipti giustiziati.
Qualche tempo fa, nei pressi del Posto di ristoro, ai templi, vicino al tempio di Ercole, lo sguardo verso la città poté d’improvviso esser libero da ostacoli e vedere la città e la collina dove la città sorge: non c’erano più, abbattuti dalla loro base, gli eucalipti che costituivano una specie di boschetto in quel luogo dove i meno giovani ricordano essere stato l’ostello della gioventù e che è scomparso assai prima degli eucalipti; scomparso come luogo d’accoglienza prima e scomparso poi pure fisicamente, come cosa esistente, come costruzione. Soppressioni e abbattimenti, di ostelli e di alberi, che passano sulla testa degli agrigentini che sembra non interessarsene affatto; hanno altro a cui pensare, piuttosto che ad ostelli e inutili eucalipti, loro. Del resto, se devono o vogliono andare in ostello, loro, lo faranno in altra città e poco gliene importa se qui, città a vocazione turistica - ma solo vocazione, nulla di concreto, per carità -, di ostelli non ce n’è; e degli eucalipti non gliene importa affatto che tanto non fanno frutti e non servono pressoché a nulla. E qui l’agrigentino comune è perfettamente d’accordo con l’agrigentino colto e intellettuale che è subito pronto a rincarare la dose: inutile, l’eucalipto? Fosse solo inutile! È pure spurio e dannoso.
È dannoso. Vedete come cresce? Lo vedete quanto alto e grosso diventa? Lo vedete in quanto poco tempo alto e grosso diventa? Pensate: là, da dove viene, perché viene da un ''là'', perché è un immigrato e per di più extracomunitario, là, in Oceania, arriva pure a settanta metri d’altezza. Qua si ferma prima, ma arriva comunque ad essere imponente, alto e robusto. Perché. Perché è capace di trovarsi l’acqua dove sii trova, anche lontano e anche molto in profondità. Succhia l’acqua, dunque, e siccome l’acqua, qui, è bene prezioso, la usa al posto nostro e perciò è dannoso. Ma, signor mio che hai la pazienza di seguirmi, quest’acqua, se non se la bevesse l’amico mio eucalipto, chi la utilizzerebbe? È forse per colpa o a causa dell’eucalipto che non abbiamo acqua? Infila le sue radici nei tubi e nelle condutture dell’acqua nostra? No. Si beve quella che trova e dove la trova, Non fa danno.
È pure spurio. Non s’accorda al contesto armonioso della flora mediterranea, non c’entra col mirto e con l’alloro, è distonico rispetto all’acanto d’ellenica memoria, non s’appaia col nodoso ulivo né con l’ormai quasi inesistente verdissimo carrubo. Diamine! È un diverso e non è mediterraneo in un posto, qual è Agrigento, mediterraneo per antonomasia, simbolo e centro del mediterraneo, capitale forse quasi per la qualità e la quantità delle vestigia del mondo ellenistico. Giusto. L’eucalipto, con le Olimpiadi classiche, con la potenza di Sparta e d’Atene non c’entra punto. Ve l’immaginate Empedocle che pensa, riflette e discetta all’ombra dell’eucalipto? Viene da ridere: impossibile, antistorico, irrealistico. E Falaride che sacrifica i suoi nemici ardendo sotto l’animale di ferro fronde e rami di eucalipto? Avrebbero bruciato meglio di quelle dell’ulivo, ma non poteva saperlo perché non l’aveva… Giusto. Mi sono convinto: via tutto quello che non è mediterraneo, facciamo un bel repulisti etnico-colturtale abbattiamo l’eucalipto e pure l’agave e il ficodindia che Empedocle, Falaride e Terone non poterono conoscere perché venuti qui - anch’essi immigrati extracomunitari - dal Nuovo mondo, e via il pistacchio e forse anche gli agrumi che portarono qui quei barbari dei berberi quando barbari non erano affatto e conoscevano l’aritmetica e il cannocchiale a noi, civili, del tutto ignoti. E avremo fatto spazio. Ce n’è tanto di spazio nel deserto. Senza dire che gli eucalipti stanno qui dal 1700 e non da ieri l’altro.
È dannoso, dunque, è spurio, ma è anche pericoloso. Il mio amico Gian J Morici mi spiega che, fin dall’ormai lontano 2005 egli sapeva che i giganti oceanici d’Agrigento erano soggetti non solo ad un’infestazione parassitaria da parte di un imenottero, ma ancor peggio, ad un incancrenimento del tronco, dovuto ad un fungo appartenente al genere Mammillaria, che in breve tempo causava la morte della pianta stessa. [la fonte: http://www.agrigentoflash.it/news/show/gianno-morici-%E2%80%9Csalsedo-fa....
Ovviamente se lo dice lui, lo dice con cognizione di causa e io non lo so. Ma da quando in qua, mi deve dire l’amico mio, la malattia si fronteggia con l’eutanasia prima ancora che con la cura? Gli auguro di non incontrare mai un medico che voglia curargli l’influenza col cianuro di potassio.
E poi l’operazione di pulizia etnico-colturale, preservativa dell’incolumità nostra e dunque salvifica e forse anche vivificante è a costo zero: il Comune non paga una lira alla ditta che abbatte i giganteschi nemici, s’accontenta della legna residua.
E mi pare di capire una cosa, che, per la verità, non vorrei capire e cioè la ragione della radicalità dei tagli; e spero che un’altra s’avveri: che la capacità di ricrescita di questi bellissimi giganti vinca sulle paure e sulle ricerche di purezza.