IL BUON SENSO DEGLI ANTICHI di Mimmo Balletti

Conobbi l’Ing. Giuseppe Rizzica qualche anno prima che abbandonasse tutto e tutti per sempre, ed era già quasi novantenne, a memoria direi una decina di anni fa. Ci incontrammo per caso, formalmente, da tecnici e non da uomini, e dopo il primo incontro decisi che mi sarei assolutamente impegnato a conoscere l’uomo. Il nostro primo colloquio fu caratterizzato da una reciproca e cordiale diffidenza: avrebbe dovuto avallare e siglare un mio computo metrico, una fila di numerini che non convinceva lui, e peraltro neanche me, che avevo dovuto impilare lavorando la notte, pressato dalla scadenza imminente di un deposito agli atti. Non ricordo che riuscii a notare nulla che avrebbe potuto tradire una sua qualsiasi sfumatura di disapprovazione nei confronti del mio lavoro, men che meno alcuna espressione censoria o di biasimo; ricordo invece che si limitò silenziosamente ad integrare le voci che riteneva dubbie con dei richiami a penna su un foglietto volante, che appuntò infine al mio elaborato con due graffette, una sul margine superiore e una sul bordo destro della pagina; curioso, scorrevo intanto con finta disinvoltura gli occhi sui libri che facevano da sfondo al luminoso ingresso del suo studio, al primo piano dell’ultimo palazzo di Via Manzoni, ad Agrigento. Per qualche motivo ebbi netta la sensazione, tra quei libri e il suo silenzio, di star sostenendo un esame. Ad un’occhiata veloce ricordo che notai subito che in quel foglietto riguardosamente appuntato svolazzava qua e là qualche motivato interrogativo, Non sarebbe meglio che... Probabilmente potremmo... Potrebbe valere la pena di... E se al posto di... inserissimo...? Rimasi affascinato dalla perizia con la quale quell’uomo segaligno, scavato e carico d’anni, posato il legno del bastone ed impugnato quello della matita, stava riuscendo in qualche minuto ad individuare tutte, nessuna esclusa, le imperfezioni concettuali e di calcolo che quell’elaborato tecnico presentava e che anch’io conoscevo completamente; intanto mi autoassolvevo pulendomi il coltello sulle spalle del poco tempo che mi era stato concesso per la sua realizzazione, anche se mi accorgevo con stizza di non essere riuscito a camuffare bene tutte le debolezze del mio lavoro. Ritornato in studio, scorrendo i suoi appunti, dovetti riconoscere con crescente stupore che quel silenzioso professionista era riuscito in così breve tempo ad individuare non solo le deficienze e le manchevolezze che avevo scientemente mascherate, ma anche alcuni errori di calcolo dei quali non mi ero assolutamente accorto, almeno non io con la calcolatrice in una notte, per contro lui con un mozzicone di lapis in qualche minuto. Mi fu subito chiaro quanto quel corpo acciaccato dagli anni custodisse una delle menti più lucide ed in salute che mi fosse mai capitato d’incontrare. La lista dei numerini ritornò quindi intonsa, senza nessuna correzione, solo con quel discreto ritaglio allegato; capii poco dopo il significato di quel gesto: non si sarebbe mai permesso di sporcare o macchiare il lavoro di un collega. Terminato, integrato e ridiscusso con lui il computo metrico, volli provare a consultarlo anche in momenti successivi, molto più per la curiosità di avvicinare quell’uomo che su un foglietto aveva involontariamente disvelato grande esperienza e straordinario talento, che per dissipare alcuni dubbi che riguardavano volta per volta la corretta applicazione di coefficienti tecnici, il dimensionamento di ferri e pilastri o l’interpretazione dei quadri fessurativi nelle strutture murarie; scuse buone per ritornare ad incontrarlo, confortato nel tempo dalla sua infinita disponibilità a vigilare, sempre e gratuitamente, su tutti quei lavori che richiedevano maggiore esperienza rispetto a quella che io, allora neanche trentenne, avevo acquisito. “Tra colleghi ci si aiuta o non ci si aiuta, e se lo si fa lo si fa per amicizia”, mi continuava a ripetere quando provavo a ventilargli l’ipotesi di una remunerazione per il suo disturbo. A dispetto dei sessant’anni che ci dividevano nasceva intanto un’intensa amicizia che credo meravigliò entrambi per la sua naturalezza; con la scusa del lavoro cominciammo a vederci ogni giorno, a telefonarci con metodo agli stessi orari, a chiacchierare interi pomeriggi nel suo studio o ad organizzare piccoli sopralluoghi in giro per cantieri. Qualcosa aveva creato un incastro perfetto: lui desideroso di trasmettere, io di apprendere; venni a sapere in giro che di suo era conosciuto tra i professionisti come un ingegnere calcolista di strutture in cemento armato, ma scoprii da solo che era sicuramente progettista ed urbanista, estimatore, architetto, fisico, chimico, matematico, geologo e geotecnico, archeologo, latinista, letterato, perfino elettrotecnico e perito balistico; compresi lentamente che conosceva le discipline delle sue passioni più di chiunque altro mi fosse capitato di incontrare, probabilmente alla stessa stregua del suo cemento armato. Dai libri irreggimentati nei suoi scaffali, con i quali cominciavo a prendere sempre più confidenza, capii che probabilmente coltivava le discipline delle sue passioni in almeno tre o quattro lingue; solo se sollecitato dalla moglie, e spesso con un certo pudore, mi raccontava con disarmante modestia di come era riuscito ad anticipare l’evento franoso di Agrigento, di come era convinto che si potessero tra qualche anno prevedere i terremoti e di quanto fosse importante conoscere i materiali da costruzione per limitare i danni sismici. Spulciava un suo immenso archivio a parete, dal quale tirava fuori progetti di palazzi, scuole, aeroporti, eliporti e ponti straordinariamente conservati e tuttora esistenti, sui quali aveva lavorato negli anni trenta o quaranta. Durante un sopralluogo in una zona archeologica a ridosso di un ipogeo, mi invitò a staccare un pezzetto di calcarenite che sporgeva da un concio di una parete, e, mostrandomelo prima in verticale poi in orizzontale, mi disse: ”Vede, caro amico, così e così non sono la stessa cosa, e gli antichi lo sapevano”. Parlava spesso del buon senso e della sapienza degli antichi, e, benché mi trovasse diffidente all’inizio, perché aprioristicamente convinto della natura nostalgica delle sue affermazioni, mi rassegnai a riconoscere le sue argomentazioni sempre più convincenti col passare del tempo; alla fine sopravvisse solo qualche ragionevole dubbio. Qualche mese prima della sua dipartita gli chiesi di darmi del tu, e mi rispose che lo avrebbe fatto solo se avessi soddisfatto la sua richiesta di reciprocità, perché non avrebbe tollerato una asimmetria tra amici. Non riuscii ad abituarmi all’idea di poter ricambiare in maniera spontanea l’eventuale tu e continuammo a darci del lei fino alla fine. Il suo così e così intanto si trasformò, qualche anno dopo la sua scomparsa e per qualche motivo men che consapevole, nella mia tesi di dottorato, un lavoro che avallava l’ipotesi che i conci di calcarenite dei palazzi di Agrigento resistevano fino al 50% in più ai carichi se estratti e posati in opera con i vecchi metodi, quelli utilizzati dai famosi antichi, che permettevano l’estrazione con la giacitura del banco di cava orizzontale, parallela al piano di posa; dimostrai che c’era differenza tra il così orizzontale e il così verticale del mio amico ingegnere. Aveva avuto di nuovo ragione; i materiali, se estratti come facevano gli antichi, durano di più e resistono meglio, e di nuovo non aveva avuto bisogno, come facevo io, alcuna calcolatrice per dimostrarlo. I risultati sperimentali della mia ricerca, condotta con l’ausilio di centri d’eccellenza di mezza Italia, confermavano semplicemente quello che l’anziano ingegnere aveva visto ed intuito, con quella sua rapida capacità di contemporanea analisi e sintesi che mi aveva sbalordito fin dall’inizio. La fortuna di un relatore poco meno anziano, altrettanto esperiente e preparato, convinto della bontà delle ipotesi, fece il resto, ed il mio lavoro riuscì a riscuotere in giro discreto interesse. Non credo che i ricordi emergano spesso senza casuali richiami, anche se raramente li si conosce; la memoria del mio amico è riaffiorata con i cadaveri tra le immagini delle macerie del terremoto abruzzese, probabilmente perché, se fosse stato ancora vivo, so che avremmo parlato per giorni di come e in che modo si poteva evitare o prevedere il disastro; e so che avremmo parlato di quanto avrebbero resistito di più i muri con i conci e gli incastri degli antichi, e so che avremmo detto che il buon senso e la sapienza degli antichi avrebbero limitato un po’ i danni, so infine che avremmo tentato di capire quanti degli edifici sopravvissuti presentavano i conci cavati dagli antichi, posati a regola d’arte. Il foglietto ed il pezzetto di calcarenite non li ho più, credo di averli buttati entrambi, uno nel cestino, l’altro tra le rocce; durante il riemergere del ricordo e delle salme avrei voluto fortemente riaverli e conservarli, ora che i computi metrici, ai quali nessuno allega più un foglietto, o i conci dei muri, malamente cavati, hanno infangato per l’ennesima volta il buon senso e la sapienza degli antichi.
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