'IL MIO NOME E' SAMIR E QUESTA E' LA MIA STORIA' di Pietro Baiamonte

Ero andato a trovare gli amici, e vecchi compagni di lavoro, presso il centro di accoglienza “Casa di Tarik”. Mi piace l’aria che si respira in quel luogo, che custodisce alcuni tra i ricordi più belli e più forti della mia vita. È un’atmosfera di goliardia perenne e di perenne cura: e la goliardia stempera la cura e gli affanni che la contiguità con memorie dolorose, di un dolore senza scampo talvolta, trasmette, anche quando resta sulla soglia di uno sguardo. Ero da poco arrivato, e già si riprendeva tra noi il filo del continuo volgere in commedia anche gli eventi meno felici, quando G. mi chiede di raggiungerlo nella stanza che fu per qualche tempo il mio ufficio. È in compagnia di un ragazzo, avrà poco più di vent’anni, con la pelle bruna, e degli occhi che mi fissano, come se da me attendesse qualcosa. G. me lo presenta, pronunciando il suo nome, e mentre gli stringo la mano mi spiega la ragione per cui mi trovo lì, tra loro: - Ho detto a Samir che tu scrivi, che spesso racconti le storie di chi approda qui al centro. Vorrebbe che tu scrivessi la sua, che la facessi conoscere.- So già quell’ urgenza di dire e capisco il suo sguardo: ciascun uomo che è passato da qui, provenendo da inferni che ho già conosciuto, sente il bisogno di tornare tra gli uomini, di riavere indietro non gli anni violati o i suoi morti, ma un semplice gesto, una parola di quelle che gli uomini si scambiano tra loro. È la propria dignità l’assenza più atroce. Così ho deciso di scrivere la sua storia, senza aggiungere nulla a quanto mi ha raccontato, cercando di restare fedele alle sue parole, al suo bisogno di colmare il vuoto che la brutalità di altri gli ha scavato intorno.

La prima cosa è il mio nome ed il mio nome è Samir. Ogni uomo ha un nome ed una storia; io il mio nome ho dovuto ripeterlo a me stesso come un comando ed una preghiera, per non dimenticare d’essere uomo anch’io, nei giorni in cui sono stato preda di altri uomini, ed il mio collo ha conosciuto il morso della catena. Il mio nome è la cosa più importante che ho. Sono afgano, venuto al mondo in un villaggio nel nord est del paese, a pochi chilometri da Kabul. Ho avuto una famiglia, come ogni uomo: un padre, una madre e tre sorelle. Adesso non sono più e la mia storia si è fatta sottile: per questo il mio nome è importante. Ho iniziato a lavorare quando mio padre è morto; ho fatto il poliziotto, ho lavorato per il governo. Mi hanno dato un fucile e dei soldi, così ho potuto sposarmi. In Afganistan ho lasciato mia moglie ed i miei tre figli, due maschi ed una femmina. Avevo un po’ di denari dal lavoro ed una famiglia: non avrei chiesto altro per me. Ho creduto di poter vivere tranquillo accanto a mia moglie, di nutrire ed educare i miei figli. È un paese difficile, il mio; ma ogni uomo è libero di sognare, ed il sogno è dell’uomo, in ogni parte della Madre Terra. E questo era il mio sogno. Una sera, durante un giro di ronda, con un collega fermiamo una macchina con dentro due uomini. Portavano droga ed armi. Sarebbe stato meglio per noi se li avessimo lasciati andare. Non sarei qui adesso, e mia madre e le mie sorelle sarebbero ancora in vita. Avrei ancora avuto tutto ciò che ho sognato, e che oggi mi appare lontano. Li denunciammo al comandante della stazione di polizia. Loro ci offrirono del denaro, per lasciarli andare liberi. Ma un uomo è tale se ha dignità, e la dignità è compiere il proprio dovere. Io non ho mai rubato, non ho mai tradito i miei doveri di uomo e credente. Ho cercato sempre la pace, e di conservare il dono della dignità, come comanda il Dio di tutti gli uomini. Altri, a Kabul, presero i soldi dai trafficanti d’armi e di droga, e li lasciarono liberi. Kabul è nelle loro mani, hanno amicizie, comandano e dispongono secondo il loro interesse. Uccisero il mio collega e tornarono a cercarmi. Per due volte chiesero a mia madre di me. Io ero sulle strade, di pattuglia. Ero un padre con il suo lavoro ed il suo dovere, con la sua dignità. Tornarono a notte fonda. Io non ero ancora rientrato. Sfogarono la loro rabbia e la loro vendetta contro mia madre e le mie sorelle. Non ho avuto il tempo di piangerle, di salutarle come prescrive la religione ed il cuore degli uomini. Ho messo in salvo la mia famiglia e sono fuggito. Era me che volevano. Per arrivare in Italia ho attraversato l’Iraq e la Turchia, con altri novanta tra uomini e donne. Ho conosciuto la miseria di chi dipende in tutto da altri, di chi si ritrova merce nelle mani dei trafficanti d’uomini. Ho mangiato radici ed erbe, ho bevuto l’acqua scura dei rigagnoli, sono stato umiliato, offeso nel corpo e nell’anima. Ho conosciuto la catena come gli animali, la ferocia insensata, ed il richiamo terribile e dolce della disperazione. Ma ho il mio nome, ed il mio nome è nella memoria del seme, e della madre che lo ha accolto e mi ha dato alla luce, è nel sangue che ho diviso con le mie sorelle; è nel nome dei figli che ho generato con mia moglie, nei loro occhi che mi tengono compagnia, che arginano la violenza degli incubi e dei ricordi. Sono un uomo ancora, dopo le torture, dopo esser stato trattato come un cane, dopo essere stato deriso per la mia paura, annusata da poliziotti come me che mi gettarono dentro l’acqua d’un pozzo per vedermi annegare; sono uomo ancora, dopo che lo loro violenza si accanì sul mio corpo e poi, stanchi e rabbiosi, mi restituirono agli aguzzini. Sono fuggito ancora, e da Patrasso, dentro il ventre d’un camion, pregando e tremando di freddo e di sete, sono giunto in Italia. Allah ha vegliato su di me, come veglia su ogni altro uomo giusto che cerca la pace tra i suoi simili. Non ho vendette da compiere, ma ho il mio nome ancora, e la mia storia: Samir è il mio nome, e questa è la mia storia. Non dimenticate, ve lo comando nel nome di Dio e degli uomini, né l’uno né l’altra.
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