"SACRALITA' E POESIA IN UN TESTO RARO DI PASOLINI" di Pepi Burgio

Per Pasolini, prima che ne leggessi una sola pagina o vedessi un solo fotogramma dei suoi film, nutrivo un forte sentimento di attrazione, semiologico, estetico, come una tensione immediata, credo condivisa anche da alcuni miei coetanei, come me venuti su un po’ strani.
Per questo sono grato al mio amico A. T., il quale mi ha fatto conoscere una pubblicazione del 2005 della prestigiosa casa editrice Archinto che raccoglie il testo di un’intervista dell’autore de Le ceneri di Gramsci, rilasciata a New York nel 1969 a Giuseppe Cardillo, allora Direttore dell’Istituto italiano di cultura.
Rimasta sepolta per quasi quarant’anni, qualche anno fa è stata meritoriamente riesumata da Luigi Fontanella, ordinario di letteratura italiana alla State University di New York. Il quale oltre ad averne curato la pubblicazione, ha scritto un’introduzione di grande pregevolezza.

Due, fra i numerosi spunti di riflessione sollecitati dall’intervista, si impongono per la centralità rivestita nella poetica pasoliniana.
Il primo riguarda il sacro. All’intervistatore che ingenuamente sembra cogliere una presunta contraddizione fra il dichiarato agnosticismo del poeta ed il carattere religioso delle sue opere, Pasolini, dopo avere ricordato che nella civiltà contadina, pre-borghese, pre-industriale, a qualsiasi livello della sua vita, anche nelle pietre, negli alberi, nei vicini di casa, in certe parole è possibile rintracciare una apparizione del sacro, una ierofania, esplicita meglio il discorso con un riferimento convincente al linguaggio cinematografico adottato in Accattone.
La sacralità, dice in sostanza Pasolini, non abita soprattutto la terra del turbamento emotivo, della compassione o della pietà di contenuto; non è fondamentalmente un fatto psicologico rappresentato, per esempio, dalla dinamicità naturalistica delle espressioni facciali.
Essa rimanda piuttosto alla mitizzazione e all’epicizzazione di elementi realistici, e consiste in un fatto stilistico. In Accattone, ricorda ancora il poeta di Casarsa, l’assenza di piani-sequenza, testimonia l’estraneità alla narrazione realistica e l’adozione di una tecnica frontale, semplice, ieratica, priva di naturalezza e di naturalismo.
Una siffatta maniera non è altro che una tecnica sacrale: questo faceva sì che le borgate [...] fossero in realtà viste come dei sacrari, dei luoghi per poesia.
Il secondo spunto di riflessione è, appunto, la poesia, a giudizio di Pasolini l’unica forma espressiva non riducibile ad oggetto di consumo, inassimilabile e indigeribile dal sistema.
Perché? Nessuna nuova improbabile elaborazione teorica, quanto un’accorata invocazione sottolineata nell’introduzione da Luigi Fontanella: L’intervista pasoliniana, documento davvero tra i più appassionanti e riepilogativi della sua biografia, termina con una sorta di appello e, al contempo di cartello segnaletico futuro: la poesia come ultimo rifugio; la poesia come bene supremo e inconsumabile; la poesia come portatrice di una grazia primitiva.
L’ultima notazione riguarda quanto affermato da Pasolini, posto solo in parte in esergo all’introduzione: Vorrei avere diciott’anni per vivere una vita quaggiù a New York. Una città magica, travolgente, bellissima. […] New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent’anni.
Curioso, se non sorprendente, a tutta prima, questo giudizio. Per ovvi motivi. Però Pasolini, a pensarci bene, in alcune occasioni ha già dichiarato che in Europa tutto è finito: in America si ha l’impressione che tutto stia per cominciare. Può bastare? Forse no. Per me la lettura più convincente l’ha proposta in maniera magnifica Enzo Siciliano: Pier Paolo scambiava per vitalità creativa gli sbandamenti della fisiologia, e, nella solitudine cui s’ era condannato, tanto gli bastava. Sempre più convinto che un poeta, un intellettuale, dovesse sfuggire ai valori della convivenza borghese, esaltava tutto quanto apparisse liberato da ogni obbligatorietà. Avrebbe amato percorrere le strade dell’estasi fisica, dello stordimento vitalistico, di una irrelata, abbandonata voluttà. Il viaggio a New York lo fece parlare in nome di una giovinezza perenne, quasi una insperata permutazione di cellule.
Pochi anni dopo, l’esasperante solitudine a cui s’era condannato, sarebbe inevitabilmente sboccata nel sacrificio dell’idroscalo di Ostia.

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