VEDERE E GUARDARE di Tano Siracusa

Quando ero piccolo ai bambini si raccomandava di non guardare in faccia a lungo gli estranei . Non sta bene, si diceva. Forse si dice ancora. Non si raccomandava di ‘non vedere’ , ma di ’non guardare’.
Di solito i comandi incomprensibili degli adulti vengono interiorizzati e assunti come regole di comportamento senza venire problematizzati, neppure da adulti.
Perché ‘non sta bene’ guardare insistentemente il volto di una persona sconosciuta?
Se un bambino lo chiedesse ad un adulto quest’ultimo avrebbe qualche difficoltà a rispondere.
Come avrebbe difficoltà a spiegare l’avversione diffusa alle riprese fotografiche che non siano quelle di posa. Evidentemente il fotografo non si limita a vedere, ma guarda, e lo fa consegnando ad un’immagine irrevocabile un volto che difficilmente sarà disposto a riconoscersi.
Cosa c’è di male nel ‘guardare’ che non c’è nel ‘vedere’?
‘Vedevo il mare e lei che nuotava ’ o ‘guardavo il mare il mare e lei che nuotava’ sono due frasi dal significato pressoché identico.

Il vocabolario Treccani alla voce ‘guardare’ indica come primo significato ‘dirigere gli occhi, fissare lo sguardo su qualche oggetto’; e specifica: ‘non include necessariamente l’idea del vedere, in quanto si può guardare senza vedere, così come si può vedere qualche cosa senza rivolgervi intenzionalmente o coscientemente lo sguardo’.
Riesce difficile comprendere come si possa guardare senza vedere, fino a quando non si legge il quarto significato che Treccani propone: ‘custodire, vigilare, fare la guardia a qualche cosa’. Il ‘guardare’ sembra implicare non solo una vista più attenta, aguzza, interessata, un’intenzione sospetta se si pensa alla raccomandazione rivolta ai bambini, ma una relazione umana con il mondo e con gli altri.
Cosa c’è di male, dunque, nel ‘guardare’?
L’etimo non è latino come può far pensare l’uso in molte lingue neolatine della parola: guardar (spagnolo), regarder (francese), guardião (portoghese) che significa però ‘guardiano’, mentre guardare si dice ‘ver’ oppure ‘olhar’. La parola viene infatti dal germanico wardōn, con il significato di ‘osservare con gli occhi, vigilare, aver cura, custodire’ (vocabolario etimologico on line). Dove lo scivolamento semantico dal vedere al custodire rimane comunque legato alla vista.
Tuttavia il nesso fra il vedere e il guardare, così stretto in italiano, si allenta o scompare in altre lingue.
Per esempio, fra le lingue neolatine, nel castigliano e nel siciliano: in entrambe il verbo guardare allude al ’prendersi cura’ e alla sorveglianza, mentre il vedere si coniuga con ‘mirar’ e ‘ver’ in spagnolo e ‘vidiri’ o ‘taliari’’ in siciliano.
Se dal verbo si passa alle forme sostantivate, la distinzione fra le funzioni del vedere e del guardare si accentua, evidenziandosi ‘il male’ che può esserci nel guardare.
Guardia, guardiano: in italiano e castigliano abbiamo ‘guardia’, ‘garde’ in francese, ‘ guarda’ in portoghese e anche in inglese ‘guardian’.
Ma lo sguardo della guardia, del guardiano, è volto a custodire non solo cose e animali ma anche uomini, e non solo per proteggere, ma anche per sorvegliare, per impedire che il ‘guardato’ possa agire liberamente, sottraendosi al controllo di chi guarda. Il guardiano di uomini è insomma il carceriere, cioè colui che tende a ridurre l’altro alla passività assoluta delle cose. Avviene nelle prigioni, nei manicomi, ovunque l’altro sia ridotto allo statuto di semplice oggetto, spossessato della sua soggettività. Avviene nella relazione sadica.
Ci si può chiedere quanto di questo ‘male’ residui nel semplice guardare il volto di un altro, incrociandone lo sguardo e non abbassandolo.
Se chi guarda è un guardiano di uomini la reciprocità è spezzata: una soggettività ha ridotto l’altra a niente, a un niente di soggettività. Ma fuori da un contesto costrittivo, di violenta subordinazione, nella quotidiana reciprocità, cosa ha da temere chi è guardato?
Nella percezione dello sguardo dell’altro, chi guarda avverte di essere a sua volta percepito come elemento di una visione altra e inconoscibile, come parte di una visione estranea e irraggiungibile.
Per Pirandello l’altro, il suo sguardo, è il teatro dove un doppio usurpa la nostra identità: lo sguardo dell’altro ci degrada a personaggi, spesso ridicoli, e comunque a oggetti di una rappresentazione infedele: la ‘forma’ pirandelliana è una costruzione primaria dello sguardo e una adeguata concettualizzazione della fotografia.
Ma Pirandello è uno fra i tanti che nella prima metà del Novecento inquadrano in questa prospettiva il tema dello sguardo: da Valéry a Sartre il ‘male’ implicito nel wardōn, è uno dei grandi temi della riflessione filosofica e della elaborazione letteraria.
Forse nell’immediatezza del senso comune questa oscura consapevolezza spiega l’ammonimento ai bambini e l’insofferenza di molti davanti allo sguardo fotografico, al clic che degraderà un soggetto a semplice immagine sbalzata fuori dal tempo, a un pezzo di carta, una schermata. Una cosa da guardare.

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