Agrigento tra le Alpi e le Piramidi

PERIFERIE. EN ATTENDANT IL CENTRO SOCIALE DI FONTANELLE di Enza Di Vita

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Narrate, uomini, la vostra storia di periferia. Dopo le analisi di Tripodi, Farruggia e Gucciardo, e il contributo autobiografico di Carmelo Sardo, una giovane assistente sociale ritorna sul tema, con un articolo sul centro sociale di Fontanelle, argomento della sua recente tesi di laurea (relatore, Gaetano Gucciardo). La parola, il racconto, la discussione sono forse strumenti deboli per contrastare l'atomismo sociale e la dispersione di senso in cui una città come Agrigento tende a trascinare i suoi abitanti. Tuttavia, in prossimità dell'anniversario della Liberazione, quest'anno funestato da orrendi distinguo, ci sia consentito di rivendicare la bellezza di questa forma civile di resistenza, di questo metodo, contro le "ortodossie personali", come le definisce Fausto D'Alessandro, principalmente le nostre, contro ogni ogni totalitaria presunzione di verità. G. V.     

Un gigante dalle fattezze spettrali. Appare così, soprattutto se lo guardi di sera al buio. È il centro sociale o meglio non è il centro sociale.

Comparso intorno alla fine degli anni '80 del '900, la sua funzione è stata sostanzialmente quella di sostenere il tempio degli uffici comunali della moderna Akragas in quel di Fontanelle.

Un telamone fatto di materiali scadenti legato ad un progetto che è ormai utopia per i residenti. Un progetto che per poco non si realizzava quando nel 2009, con il “Contratto di quartiere II”, si operò la riqualificazione urbana di alcune aree del quartiere.

Riqualificazione che però non fu mai portata a termine e che ha concesso ai residenti di continuare a logorarsi con l'antico leitmotiv che li caratterizza: «ma quannu lu finiscinu stu centro sociali?».

 

PERIFERIE. "SO COSA SIGNIFICHI VIVERCI" di Carmelo Sardo

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Tutti conosciamo le periferie, ma ognuno le conosce a modo suo. Tutti sappiamo e possiamo parlarne, ma solo chi le ha vissute e le vive può raccontarle. Diversamente resteranno un concetto astratto, attorno al quale ogni proposta e ogni suggerimento finiscono per alimentare un dibattito che rischia di cozzare contro certa riluttanza, politica e culturale, nell'affrontare il fenomeno dalle sue viscere. Ma bisogna parlarne certo, e correrlo questo rischio, provando a non cedere ai soliti vecchi ritornelli stereotipati, o a facili e abusate metafore. E allora, sì, è vero che l'uomo ama per natura "accentrarsi"; che il centro è e resterà sempre il cuore pulsante delle città, accalappiatore di turisti, ammaliatore di giovani a frotte, allettati da negozi e da locali alla moda; rappresentazione, se non ostentazione, di benessere, in cui cercar riscatto smarcandosi da quel cibreo disordinato che contorna il salotto buono delle città, dove si allungano periferie eternamente degradate ( ecco, ho ceduto anch'io ai luoghi comuni, ma parlandone è inevitabile).

Allora provo ad andare oltre e a raccontarle le periferie: anzi, la mia periferia. Perché io vengo da lì. Lì sono cresciuto e da lì sono partito, ed è lì che torno quando torno, perché lì c'è ancora la mia casa, dove da oltre quarant'anni vive mio padre. Lì, in quel posto dimenticato da tutti e da Dio ho costruito il mio futuro, che detta così suona quasi come un ossimoro.

 

PERCHE' NON POSSIAMO NON ESSERE ATTUALI, NEANCHE SCRIVENDO MEMORIE di Gaetano Savatteri

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Insomma, dice Giandomenico Vivacqua, “la nostra battaglia è la memoria. Lasciamo ai trentenni, tanto spesso invocati nelle nostre riunioni, la libertà di fare e di non fare, di avere successo e di fallire. Tutto quello che possiamo per loro sono i nostri ricordi e la serietà, non disgiunta dalla pietà, con cui dobbiamo raccontare le nostre storie”.

La memoria e la resa, dunque. Feci quod potui, faciant meliora potentes. E, secondo Vivacqua, i “potentes” non devono avere più di trent’anni. Tutto il resto è noia, amarcord, nostalgia, rimpianto o rimorso. Fallimento o successo. Storie da consegnare alle generazioni future. E quindi basta farsi cavie dei propri figli per assolvere il compito a noi affidato dalla Storia o dal Caos.

Qualcosa non mi torna. Anzi, molte cose non tornano. Il discorso di Vivacqua prende mossa dall’ispirazione – immedesimazione? – tra Giandomenico e Frédéric Moreau, il protagonista dell’Educazione sentimentale di Flaubert. Dopo aver cercato successo e fortuna a Parigi, Moreau ritorna nella sua sonnacchiosa provincia dove ritrova la donna che ventisette anni prima aveva vagheggiato, ma l’occasione mancata ormai è mancata per sempre. In pratica: la donna è vecchia, Frédéric è vecchio, le illusioni perdute per sempre.

 

PERIFERIE. AGRIGENTO CITTA' 'STRAVACCATA' CON UN CENTRO PERIFERICO di Gaetano Gucciardo

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Agrigento è una città con una estensione geografica enorme anzi abnorme rispetto alla sua popolazione. Gli americani lo chiamano sprawl, come dire “stravaccato”. È un tratto comune a tutte le espansioni urbane dopo l’avvento dell’automobile. Quando le città e i sobborghi si addensavano secondo il passo del pedone conservavano anche una identità fisica. E l’hanno conservata anche quando è stata introdotta la mobilità pubblica su rotaia. Le città e i sobborghi avevano confini chiari. L’automobile ha rotto questi vincoli e le città si sono smarginate, “stravaccate” sul territorio.

Anche Agrigento ha conosciuto questo processo reso ancora più complicato dai vincoli derivanti dalla Valle dei templi. La città ha conosciuto una espansione profondamente e sostanzialmente abusiva. E laddove invece l’espansione è stata pianificata la qualità urbanistica è rimasta latitante. Sono stati costruiti sobborghi con una manifesta finalità di dormitori. Non una piazza, non una villa.

La suburbanizzazione di Agrigento è così marcata da collocare la città ai vertici nazionali nella graduatoria dei residenti nei sobborghi. Ben il 41% dei residenti, secondo l’ultimo dato di censimento disponibile (quello del 2001 – ma non c’è motivo di pensare che le cose siano cambiate), vive fuori dal centro urbano mentre la media nazionale è di poco superiore al 10%. Solo tre città in Italia hanno percentuali più alte: Venezia con il 78,7%, Ravenna con il 45,8%, Vibo Valentia con il 43,5%.

 

I TALENTI VANNO MESSI A FRUTTO, SEMPRE di Venerando Bellomo

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Caro Giandomenico, in merito al tuo scritto Che fare? Migliori del proprio tempo o del proprio tempo i migliori?, che ho molto apprezzato, mi chiedo: ma cos’è e quale effettivamente è la nostra generazione. Ho, da sempre, avuto l’impressione, proprio per essere nato nei primi anni sessanta, di appartenere non ad una, la nostra, ma a più generazioni. Ritrovandoci testimoni di un’epoca volgente, che proveniva dal dopoguerra, ma che si portava appresso i caratteri sociali e psicologici di un mondo che deponeva le armi, per traghettare in quello spumeggiante “da bere”, precipitando in un contemporaneo così fluido da non avere il tempo di assumere alcuna forma. E la differenza, per ciò che riguarda la prima fase, tra me che provenivo dalla provincia e la città, che destava perplessità ed angoscia, per intenderci quel sentimento che descrive Paolo Conte con “Genova”, era allora di tutta evidenza, in particolare, nella formazione scolastica, quasi asburgica. Tanto d’essermi convinto di aver fatto un servizio militare anticipato. E poi, poco alla volta, anche nei paesi, per induzione, ci si cominciò ad uniformare verso il paradigma cittadino, fino a raggiungerlo. Essendo ormai difficile distinguere, forse nemmeno nella cadenza linguistica, la provenienza dei ragazzi. Ma i paesi sono, almeno nella memoria, un luogo tutto da scoprire, dove vissero dei personaggi come Don Ferrante, che ad un giro ristrettissimo di giovani fecero conoscere un sapere che, altrimenti, difficilmente avrebbero avuto. L’opera lirica, la letteratura, il teatro erano oggetto di narrazioni e di fantasie galoppanti, magari a volte estrose ed eccentriche, che però spinsero quei giovani a recuperare libri, dischi, copioni, partiture, che diventarono prolegomeni della loro formazione.

 

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