Agrigento tra le Alpi e le Piramidi

I LUOGHI E LO SPIRITO. NEI VICOLI IN APRILE LE LACRIME VERSATE di Venerando Bellomo

 
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Nullus locus sine genio

“Genius Loci”, è il titolo di un libro di Roberto Cotroneo che unisce fotografie e testi dell’autore, che con tale opera ha fermato, con lo scatto, il pubblico, nelle posture e nelle espressioni, negli spazi espositivi. Evidenziando così, in maniera eloquente, il rapporto tra il pubblico e l’arte: creando un’immagine ulteriore, descrittiva e compenetrante dell’interesse delle persone in un determinato luogo in sé significativo. Quindi, non soltanto l’opera esposta, non i soli visitatori, ma l'immagine pregnante di questi con le loro reazioni, spontanee o meno, quando si trovano, per loro scelta, in un luogo che li ha attratti per ciò che rappresenta e vi si rappresenta.

E il ”Genius”, lo spirito, che ha le sue radici nella cultura classica, risiedeva nell’animo di ogni persona e in ogni altro luogo fisico, così riconoscendo, per implicito, a questo l’identica condizione di quella degli uomini. E, se così è, la sacralità dei luoghi, impone il rispetto, l’amore ed ogni altro sentimento che può rivolgersi a ciò che è sacro, e che per tale sua intrinseca forza influenza l’uomo che in essi vive, fino a diventare essenza del luogo stesso.
E in queste sere di un’innocente primavera, quando ancora è meno che mite il vento di ponente che accarezza i volti e porta con sè i primi odori dolciastri, moreschi, del cimolo e del bàlico, é istintivo, quasi dettato dalla natura stessa, volgere l’immediato pensiero alle scene della settimana di passione, che fin da bambini, si sono impressionate nella memoria.
Ed andando a ritroso negli anni, in un tempo passato privo di orizzonte cronologico, una sorta di sempiterno presente retrocedente, si materializzano i volti e i luoghi, che si affermano e si completano in un'unità imprescindibile. E come in un incantamento, a quegli odori, si uniscono e si odono, a mano a mano più nitide, le prime note di un’antica e straziante melodia, che si srotola nel labirinto della scala araba, quasi a finire, per riprendere, quel canto ascendente, dal rincalzare di un’altra voce, ancor più potente, fino a staccare, d’un tratto, in una cadenza corale che, con solenne gravità, dà profondità armonica che avvolge, ora, i vicoli dalle bàsole disconnesse per poi si ritorcersi, insinuandosi, come a fasciarli, intorno ai cipressi che modellano i fianchi di quel colle, che attende coronato dalle alte vampe dei roghi dei bivacchi, dove avvenne lo strazio dell’Uomo.
E quel canto diventa ancor più intenso e si materializza nei visi rugosi ed antichi di quegli uomini che, a crocchia, tra file di fiaccole gocciolanti cera liquefatta, rievocano, chissà da quanto tempo ormai, lo strazio di quella Madre, che mossa da un terribile presagio, nella notte dell’inganno, cerca vanamente, nel sopravvento della sua umana carnalità, di fermare quel funesto destino che al tempo stesso, per mistero di fede, è disegno divino.
E quelle voci lancinanti, si mescolano e spesso sovrastano i tonfi tristi dei tamburi e il deflagrare dei cimbali delle marce dal ritmo singhiozzante e struggente, che ognuno conosce a memoria. Ed è ora tutto avvolto dall'odore mieloso dello zucchero filato. Quei vecchi, con gli occhi tristi da bambino, ne hanno viste di madri, di donne, di spose, quasi bambine, fasciate nel velo del lutto, contorte negli spasmi del dolore, piangere il corpo crocifisso nei pali del filo spinato del loro figlio soldato sulle pendici del Carso o stringere tra le mani un piastrina ritrovata tra le sabbie di El Alamein o in un campo di girasoli della Russia.
E i muri incastonati da cristalli di gesso e da bottoni di muschio, balenanti alla luce smorzata delle lampade a pera, abbracciano in un corteggio quella scena.

 

 

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