Ho aspettato con una certa impazienza l’annunciata mostra di Tano Siracusa che si è inaugurata ieri 13 marzo 2009 nello studio di Giovanni Tedesco, in Piazza Sinatra, nel Palazzo Piortulano. Ero impaziente e curioso. Conosco Tano da una vita, ho perfino abitato con lui per un certo periodo, abbiamo fatto insieme lunghi tratti di strada, abbiamo avuto, ognuno per nostro conto e inconsapevoli uno dell’altro, una formazione assolutamente analoga e siamo approdati ad un sentire comune che è assai simile; rappresenta certamente una delle intelligenze fra le più vivaci di questa città e mi onoro d’essere suo amico. Ho seguito, in qualche modo, la sua attività di fotografo e avevo idea che questa sua ultima mostra, questi suoi ultimi lavori, avrebbero rappresentato una svolta significativa nel suo modo d’essere fotografo. Ne avevo idea, lo immaginavo e lo temevo. Qualche volta che abbiamo discorso di fotografia, negli ultimi tempi, ci siamo intrattenuti molto sul mezzo tecnico; il “progresso” aveva colto anche Tano che s’interrogava sulla fotografia digitale, sul rapporto fra chimica e digitale, che sperimentava questa nuova tecnologia. Sapevo, dunque, che “giocava”con un una macchina digitale, che trascurava il cloruro d’argento degli antichi negativi in favore delle sequenze di uno e zero registrate su supporti magnetici. Un passaggio, questo, che per uno qualunque era quasi naturale e che per lui rappresentava una specie di salto nel buio, un volo del quale non conosceva né senso né significati. Lo vedevo, quando veniva a trovarmi con la sua camera attaccata al collo, afferrarla con la mano destra, farla ruotare di mezzo giro verso l’alto e guardarla con aria interrogativa quasi a chiedersi cosa mai fosse.