Agrigento tra le Alpi e le Piramidi

le opinioni

 

PERIFERIE, LUOGHI DELL'INVIDIA di Alfonso M. Iacono

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La periferia non è solo una fetta di territorio che si addossa intorno al centro di una città circondandola. La periferia è anche un concetto. Essere periferici è una sorta di valore negativo. Significa essere subalterni e inferiori al centro. In epoca moderna, soprattutto nell’Ottocento le città cominciarono a diventare metropoli, crebbero di popolazione e tutta la moltitudine di migranti che provenivano dalle campagne o da altri paesi andava a vivere, o sarebbe meglio dire: a sopravvivere, nelle periferie. Il centro è pulito, ben ordinato, fatto di quartieri alti, abitato da ricchi, benestanti e intellettuali, dotato di monumenti storici, di negozi chic, di chiese romaniche, gotiche o barocche, di palazzi antichi, di piazze bellissime. Le periferie sono tutto il contrario. Anche quando in esse vengono costruiti i tribunali, gli ospedali, i centri commerciali, anche quando vi si fabbricano case e villette, anche quando vi vanno ad abitare seri professionisti e corretti rappresentanti del ceto medio, non cessano di essere periferie. Ecco perché la periferia oltre ad essere un territorio particolare è anche un concetto. La periferia è un luogo che non riesce ad essere un centro, che, soprattutto, non riesce ad avere una vita propria. Nelle periferie ci si va a dormire. Quartieri dormitorio si dice. Per tutto il resto si va in centro città, il vero luogo del desiderio, delle luci, degli incontri, del farsi vedere, della moda, delle vetrine, dei ristoranti, dei pub, della cultura, delle presentazioni dei libri, dei dibattiti culturali e politici, dei negozi di musica e di quelli dei videogames. Per questo la periferia è anche il luogo dell’invidia, della gelosia, della rabbia di chi sta alla sbarra al di là del margine, anche se gli si concede di venire in centro il venerdì e il sabato.

 

NEI POVERI LO SPIRITO IN PUREZZA, DA PASOLINI A CARRÈRE di Pepi Burgio

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Torino, 27 dicembre 1974. Nell'introduzione a La musica per film, raccolta di saggi sull'argomento scritti da Theodor W. Adorno e Hanns Eisler, Massimo Mila, grande musicologo torinese, dice qualcosa poco accoglibile. Secondo lui Pasolini ha usato nei suoi film, coerentemente con quanto prescritto da Adorno e Eisler, l'espediente retorico, “divenuto un luogo comune”, del contrappunto drammatico a rovescio, ovvero l'esasperazione della differenza tra il commento musicale e l'azione.

Pasolini, dice ancora Mila, vi ha fatto ricorso conformisticamente, ricorrendo “ai cori sublimi della passione secondo S. Matteo per le più squallide scene della miseria umana in Accattone o la Cavatina celestiale del Quartetto in la minore per i placidi coiti de Il fiore delle mille e una notte”.

Queste affermazioni, il loro tono liquidatorio, denotano più che una contingente messa in discussione di alcune scelte espressive del regista, una radicale incomprensione, una sostanziale estraneità, anagrafica oltre che estetica, di una parte consistente dell'intellettualità italiana dell'immediato dopoguerra nei confronti di Pasolini. Con alcune eccezioni, Fortini ad esempio – a cui Accattone piacque molto, fino a definirlo “stupendo, bellissimo, di una pulizia morale assoluta” –, che ha colto nella sineciosi una modalità strutturale della poetica pasoliniana. In alcune sequenze particolarmente violente di Accattone, la musica di Bach, dice Adelio Ferrero, “esplode altissima ed allontana la brutalità dei fatti riscattandone la sacralità della disperazione e del dolore”.

 

A PROPOSITO DI 'SEGNO', DEL 'LIBRO' DEI LIBRI E DEL WEB di Vincenzo Campo

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Quando sono stato invitato a partecipare alla presentazione del il numero di Segno ora in distribuzione, avevo pensato di svolgere alcune mie considerazioni sulla Riforma protestante che ritenevo e che ritengo connesse a cose dette in occasione della presentazione del numero precedente; considerazioni che, dal mio punto di vista, valevano a sostenere le ragioni della continuazione della pubblicazione della Rivista.

La cosa curiosa e che mi ha colpito favorevolmente è che, proprio il numero del quale stiamo parlando, contiene un articolo di Felice Scalia sulla Riforma protestante e, in particolare, sui “doni” della Riforma stessa.

L’articolo è estremamente interessante e, per molti aspetti forse sbalorditivo, per me; già il solo parlare, in ambiente cattolico, di doni ricevuti dalla Riforma significa capovolgere un modo di vedere e di pensare tradizionale nella Chiesa cattolica; vero è che la strada, in qualche modo, è stata aperta e spianata dall’incontro di Papa Francesco con il Presidente mondiale delle chiese luterane, ma è anche vero che non sono mancate forti critiche in ambito cattolico.

Uno dei capitoli dell’articolo si sofferma sulla supposta asserita “fedeltà alla tradizione” usata per sostenere ragioni di opposizione alle critiche di Lutero.

E infatti il richiamo alla sola Parola, il ritenere fondativo della fede cristiana il riferimento ai soli Evangeli con esclusione della tradizione è uno dei punti fermi del protestantesimo: dunque la centralità della Parola e dello strumento che quella parola ha fatto conoscere e diffondere nel tempo e nello spazio, la Parola scritta, il Libro. Dal tempo di Abramo ai nostri tempi, dal Regno di Israele del tempo di Abramo a tutti i Regni del nostro tempo; perché, lo si voglia o no, piaccia o no, la Bibbia è “Il” Libro.

 

NULLA E' COMPIUTO, TUTTA LA VITA VA VISSUTA E RACCONTATA di Vincenzo Campo

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Sto in bilico fra attualismo e passatismo, forse; non mi sento ancora un reduce –reduce di che, poi? Non della Campagna d’Africa e neppure della Guerra di Crimea, naturalmente, ma neppure delle barricate e degli scontri ideologici e anche fisici del mio sessantotto; perché per essere reduci bisogna che l’impresa alla quale s’è partecipato sia finita e la mia non è affatto finita, ho la pretesa di pensare che continui ancora e che non s’arresti; e tuttavia, non reduce, sono consapevole di non avere un futuro lontano davanti a me, ma solo prossimo e vicino.

Si pensa e si dice che il radicalismo è dei giovani e la  moderazione appartiene ai maturi – che è eufemismo per non dire “anziani”, che pare brutto; e io sono abbastanza maturo, anagraficamente, per essere a pieno titolo un moderato.

Ma il tempo fisico, quello che si misura in secondi, minuti, giorni, mesi e anni secondo metri diversi che chissà perché cambiano base -ora in base sessanta, poi in base trenta e poi dodici – c’entra poco, io credo.

Salvo a non esserci fermati eterni adolescenti, noi diciamo che il tempo ci cambia e ci trasforma; che, a noi che abbiamo attraversato tante primavere, ci ha cambiati e ci ha trasformati; ma, col dire questo senza che ce ne accorgiamo facciamo una gran bella semplificazione: non è il passare del tempo che ci ha cambiati, ma quello che in questo tempo è avvenuto e il modo in cui tutto questo è avvenuto: gl’incontri che abbiamo fatto, le relazioni che abbiamo intessuto, le grazie e le disgrazie che abbiamo attraversato.

 

LA CHIESA OSPEDALE DA CAMPO E LE FERITE DEI DIVORZIATI di Nino Fasullo

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C’è un dibattito nella chiesa palermitana in cui si discute della vita della gente, delle famiglie, dei giovani. Un dibattito non poco opportuno cui è quasi un dovere partecipare. Se il dialogo e il confronto diventano cultura nella Chiesa, anche la città si farà più ricca e solidale. Ciò su cui si sta discutendo riguarda, in particolare, la possibilità per la Chiesa di accogliere alla mensa eucaristica alcuni che lo chiedano, pur avendo esperienza di un secondo matrimonio. Papa Francesco invita la Chiesa, e particolarmente i Vescovi e i preti, a esaminare la questione attentamente, con discernimento e responsabilità pastorale.

C’è un passo del Vangelo di Marco (Mc 10,1-12) che sembra suggerire una riflessione idonea a orientare la pastorale e a assumere iniziative coerenti e concrete.

Racconta l’evangelista che, un certo giorno, si fecero avanti dei farisei per domandare a Gesù se “è lecito a un marito ripudiare la moglie”. Gesù non rispose subito con un sì o un no netti, ma domandò a sua volta che cosa Mosè avesse loro “comandato”. I farisei risposero: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di divorzio e di ripudiare”. Al che Gesù fece osservare che Mosè aveva sì “scritto tale precetto” ma a causa della “durezza del vostro cuore”. Concluse il discorso facendo presente che “dall’inizio della creazione” non era così: il divorzio non era nel disegno di Dio.

 

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