In principio c'era la Dc (e il Vaticano). La Rai era uno strumento dichiarato di orientamento culturale e politico del popolo italiano. E tale rimase con l'ingresso dei socialisti al governo dalla metà degli anni sessanta in avanti. Non fu un blocco monolitico, ma le presenze delle culture 'altre' erano marginali e prescindibili.
Poi arrivò il secondo canale; e poi la riforma.
Le classi dirigenti di allora decisero, non so se per necessità o per lungimiranza, di articolare l'offerta televisiva in relazione alle principali culture politiche del paese, ognuna delle quali ebbe rete e Tg con cui raccontare il proprio sguardo sul paese e le sue prospettive. Venne il tempo della Rai pluralista o, se volete, della lottizzazione.
Produsse malcostume, certo, ma anche diversità; e varie forme di opposizione trovarono non solo spazi di espressione, ma anche occasione e strumenti di rovesciamento della narrazione dominante e ufficiale.
Sono gli anni del pentapartito blindato politicamente, ma perforato culturalmente e infilzato televisivamente: Grillo a Canzonissima, Minà con Blitz, Santoro con Samarcanda...
Oggi la Rai vive una condizione di sospensione, di attesa, con annunci di cambiamenti radicali.
Il nuovo ceto politico che sta guidando l' Italia vorrà cambiare la Rai, farla a sua immagine e somiglianza, strumento del suo progetto di guida e cambiamento del paese.
Ha già espresso il nuovo consiglio di amministrazione e i nuovi vertici, presidenza e direzione generale. Nel giro di poche settimane la nuova governanza ridefinirà i vertici delle Reti e dei Tg. Per farne cosa? Vedremo.
Resterà l'articolazione della guida delle reti secondo il criterio consolidato della spartizione tra maggioranza e opposizione?